venerdì 23 gennaio 2009

Wind of change

Un altra settimana si apre all'insegna dell'incertezza sui mercati. La scorsa è stata teatro di una vera e propria carneficina nel settore bancario. Nulla di inatteso, almeno per quel che mi riguarda, trovo però preoccupante la rapidità con cui gli eventi stanno precipitando. Pritchard sul Telegraph prova a fare il punto della situazione: gli USA stanno perdendo mezzo milioni di posti di lavoro al mese, in Brasile solo a Dicembre ne sono evaporati 650000 mentre in Cina ammontano a 10 milioni le persone che hanno perso l'impiego dall'inizio dell'attuale crisi. Considerando i dati dell'ultimo quarto l'economia americana si è contratta del 6% l'anno, quella tedesca del 7%, quella giapponese del 12% e quella koreana di uno spaventoso 22%.

Intanto i comparti bancari di mezzo mondo continuano a rigirarsi in un agonia che sembra non avere fine. Se Bank of America e Citigroup si sono rivelati essere il buco nero che molti sospettavano fossero, personalmente, rimango in attesa che anche il verminaio chiamato Wells Fargo ci regali qualche attimo di suspense. Intervistata a Dicembre, prima che i recenti disastri bancari venissero alla luce, Meredith Whitney, una delle migliori analiste riguardo la condizione delle banche, alla domanda posta da una giornalista della CNBC su quale fosse la banca messa peggio rispose senza esitazione: "Wells Fargo".

Nel frattempo, è in corso un acceso dibattito su come utilizzare i rimanenti 350 miliardi del TARP. L'ipotesi di creare una "bad bank" sembra aleggiare insistentemente tra gli scranni del parlamento americano. Paul Krugman neo premio nobel per l'economia, in una delle rare occasioni in cui ne condivido l'opinione, definisce la possibile istituzione di una "bad bank" come una forma di Wall Street voodo. La "bad bank" si occuperebbe di comprare tramite denaro prelevato dal TARP, tutti quegli assets andati a male che le banche si ritrovano in pancia. Si parla di almeno 100 miliardi che grazie ad un leverage di 10 volte garantito dalla Federal Reserve, fornirebbero 1000 miliardi complessivi alla "bad bank" per i suddetti acquisti. Il problema rimane, la valutazione di questi assets tossici. Lo stesso scoglio su cui si infransero, ad Ottobre, i propositi iniziali di Paulson su come utilizzare i fondi del TARP .

Soros riassume il dilemma dell'amministrazione Obama dicendo:

La difficile scelta che sta fronteggiando l'amministrazione Obama è tra una parziale nazionalizzazione delle banche, o il lasciarle in mani private e nazionalizzare solo gli assets tossici. Scegliere la prima opzione infliggerebbe una grande sofferenza su un vasto segmento della popolazione - non solo gli azionisti delle banche, ma anche i beneficiari dei fondi pensione. Però, ripulirebbe l'aria e farebbe ripartire l'economia.

La seconda opzione eviterebbe il riconoscimento ed il venire a patti con la dolorosa realtà economica, ma porrebbe il sistema bancario nella stessa condizione che ha condotto alla rovina delle government sponsored enterprises (GSEs) – Fannie Mae e Freddie Mac. L'interesse pubblico richiederebbe alle banche di riprendere ad erogare prestiti a condizioni vantaggiose. Però, questi prestiti finirebbero col dover essere imposti attraverso un diktat governativo dato che l'interesse personale delle banche le condurrebbe a concentrarsi sul preservamento e la ricostruzione del proprio patrimonio.

Dati i precedenti, mi aspetto che Obama ed i suoi intraprendano la seconda strada, nella convinzione che sia meglio soffrire meno e più a lungo (sempre che sia effettivamente possibile).

Le banche Inglesi dal canto loro, continuano a flirtare con la nazionalizzazione. Il piano di soccorso stilato da Brown, prevede l'estensione del programma di garanzia sui prestiti erogati dalle banche oltre a fornire una garanzia aggiuntiva sui nuovi prestiti pari a 50 miliardi di sterline, assicura che la nazionalizzata Northen Rock estenderà prestiti a clienti che dimostrino di essere meritevoli e promette l'acquisto di assets tossici per l'ammontare di 50 miliardi di sterline. Si tratta in sostanza delle solite mezze misure. Un tentativo di evitare a tutti costi la nazionalizzazione.

Pritchard conclude la sua analisi sulla situazione odierna, rilevando come essa ricordi da vicino quella dei primi mesi del 1931. Una volta tanto però, riesce a scorgere anche un lato positivo: "almeno non è ancora il 1933" dice. Obama secondo lui, si troverebbe ad affrontare una realtà migliore di quella che toccò a Roosevelt nel 33 ed avrebbe quindi, ancora un certo spazio di manovra a disposizione prima che tutto rischi di diventare ingestibile. In questo senso le scelte che il neo presidente compirà in futuro saranno fondamentali. Dovrà agire con decisione e senza commettere errori perchè, con tutta probabilità, non avrà a disposizione una seconda chance per evitare il precipitare degli eventi.

A proposito di eventi che precipitano: un retroscena interessante riguardo agli avvenimenti che coinvolsero il settore finanziario ad Ottobre, emerge da un articolo del daily mail . All'epoca arrivai a suggerire ai lettori di questo blog di fare scorta di cibo. Probabilmente qualcuno avrà pensato che sia stato troppo allarmista. Paul Myners, ministro per la City, ha rivelato che venerdì 10 Ottobre il sistema bancario inglese si trovò ad passo dal completo collasso. Stava per scatenarsi una forsennata corsa alle banche. Il governo andò in stato di emergenza e si preparò ad attuare un blocco totale delle operazioni bancarie che prevedeva: la completa chiusura degli istituti, la sospensione dei ritiri e dei trasferimenti di denaro e una successiva nazionalizzazione dell'intero settore bancario.

Solo frenetiche comunicazioni dietro le quinte riuscirono a scongiurare la corsa alle banche e lo scatenarsi del panico. Inutile dire, che in seguito a queste dichiarazioni, siano arrivati da più parti attacchi a Lord Myners, accusato di incentivare il senso di insicurezza del mercato.

Altre dichiarazioni che hanno fatto molto discutere, sono quelle pronunciate la scorsa settimana da Timothy Geithner. Ricordatevi bene questo nome, perché lo sentirete pronunciare spesso in futuro. Appartiene al ministro designato del tesoro statunitense. Ex presidente della Federal Reserve di New York, Geithner ha ricoperto nella sua carriera diverse posizioni di una certa rilevanza e viene considerato un uomo establishment (qui trovate un diagramma con le sue connessioni). Fu uno dei principali architetti del salvataggio della Bear Sterns, la scorsa primavera. Ricoprì il ruolo di sottosegretario al tesoro nella amministrazione Clinton sotto la supervisione del ministro Robert Rubin e del suo successore Lawrance Summers.

Adesso Rubin, dopo aver trascorso anni nel consiglio di amministrazione della Citigroup senza notare alcun problema nella condotta dell'istituto, si è dimesso "spontaneamente" per andare a ricoprire il ruolo di consigliere di Obama. Summers dal canto suo presiede alla casa bianca, sempre dietro nomina di Obama, il National Economic Council una potente agenzia che ha il compito di supervisionare e dare consigli, in merito alla politica economica dell'amministrazione americana.

Questi personaggi non possono certo essere considerati un grande cambiamento. Sono sicuramente meglio del ministro uscente Paulson e dei suoi amici. Per trovare di peggio, del resto, Obama avrebbe dovuto, probabilmente, cercare nell'averno. Difficilmente però, questi nuovi protagonisti della politica economica USA potranno contrastare in maniera decisa l'establishment economico, essendone stati membri.

E tanto per cominciare con il piede giusto il neo ministro Geithner, la scorsa settimana, in una nota rivolta al comitato finanziario del senato ha attaccato pubblicamente la Cina:

"Il presidente Obama -- supportato dalle conclusioni di un vasta parte degli economisti -- ritiene che la Cina stia manipolando la sua valuta" ha scritto Geithner in risposta a dei quesiti avanzati da alcuni membri del Senate Finance Committee.

"Il presidente Obama si è impegnato come presidente ad usare in maniera aggressiva tutte le vie diplomatiche disponibili nel perseguimento di una modifica nella politica monetaria Cinese" ha detto Geithner.


Dopo aver letto queste dichiarazioni molti si sono messi le mani nei capelli. Willem Buiter in un recente articolo intitolato: "Quando tutto il resto fallisce, dai la colpa alla Cina", critica pesantemente l'aggressività mostrata da Geithner e dall'amministrazione USA. Una delle ragioni per cui Buiter ritiene vi sia speranza che l'attuale recessione globale non si trasformi in una seconda Grande Depressione è l'assenza di quella diffusa politica di dazi e barriere commerciali che fece la sua comparsa durante gli anni 30. Incentivare i conflitti con stupide dichiarazioni, nel mezzo della crisi attuale, sarebbe tutt'altro che costruttivo e potrebbe condurre a scontri dalle antipatiche conseguenze.

Altri soggetti invece, hanno accolto le accuse di Geithner con entusiasmo. E' il caso di un gruppo che rappresenta una parte dell'industria manifatturiera americana, l'U.S. Business and Industry Council, guidato da Kevin Kearns. Kearns ha colto la palla al balzo ed ha invitato il nuovo governo ad erigere delle barriere commerciali all'importazione di merci cinesi. In realtà Obama aveva già annunciato l'intenzione di introdurre una clausola per l'utilizzo di materiali prodotti in america, nella legge che il parlamento approverà a breve e che dovrebbe istituire il preannuciato pacchetto di stimolo all'economia da 825 miliardi di dollari.

Un Keynesiano affermerebbe che l'efficacia di un intervento di stimolo dipenda: dalla propensione al consumo, dal livello della tassazione e dalla propensione all'importazione. In questo senso, uno dei modi più semplici per aumentare l'efficacia di un pacchetto di stimolo è l'adozione di barriere commerciali. Una possibilità che ha scatenato il panico tra gli esportatori USA, preoccupati di possibili ritorsioni commerciali da parte delle altre nazioni. Un gruppo di essi che include Boing, General Elettric e Cateripillar sta correndo ai ripari esercitando forti pressioni volte ad impedire l'approvazione della sudetta clausola.

La Cina, pur infastidita dalle accuse di Geithner ha replicato, per voce del ministro del commercio, definendole delle "critiche senza fondamento" ed ha ribadito di non aver mai manipolato la sua valuta. Secondo analisti cinesi sentiti dalla Reuters, i politici del paese orientale, hanno controllato la propria rabbia nella convinzione che Geithner e Obama stiano solo atteggiandosi per questioni di politica interna. Alcuni commentatori però, cominciano a manifestare preoccupazione riguardo un eventuale diminuizione nell'acquisto di buoni del tesoro USA da parte cinese. Un articolo sul Nikkei riporta l'opinione di Yu Yongding, ex membro della banca centrale Cinese, il quale suggerisce al suo governo di vendere parte dei buoni del tesoro americani in suo possesso e di diversificare gli investimenti aumentando l'acquisto di assets denominati in euro ed in yen. Yu sembra preoccuparsi di un prossimo calo nel valore del buoni del tesoro americani e delle perdite che incasserebbe la Cina nell'eventualità.

Anche Federico Rampini su repubblica, sembra ventilare di una possibile rottura tra Cina e USA:

L´Amministrazione Obama esordisce attaccando la Cina, e in un lampo i mercati sono costretti a porsi una domanda terribile: cosa accadrebbe se Pechino reagisse smettendo di finanziare il debito pubblico americano?
Lo spettro di una frattura nel legame finanziario sino-americano - «Chimerica» come l´ha battezzata lo storico dell´economia Nial Ferguson - ieri ha fatto capolino sul mercato più liquido del pianeta, quello dove si scambiano i Buoni del Tesoro emessi a Washington. I rischi di una tensione commerciale Usa-Cina hanno fatto tremare i Treasury Bonds trentennali, uno dei titoli considerati più sicuri e tradizionalmente un bene-rifugio per gli investitori. I T-Bonds trentennali hanno subìto vendite che hanno portato a un rialzo dei rendimenti, fino a sfiorare il 3,30% proprio giovedì sera, non appena il Senato americano ha diffuso il testo dell´audizione del neosegretario al Tesoro Tim Geithner. Lì figura l´accusa alla Cina di «manipolare la propria valuta».
E´ un´accusa forte, che nessun segretario al Tesoro dell´Amministrazione Bush aveva mai voluto formulare apertamente. Può aprire la strada a ritorsioni commerciali contro il made in China. Quello che ha spaventato i mercati, è l´eventualità che in una escalation protezionista Pechino possa usare l´arma finanziaria, riducendo i suoi acquisti di buoni del Tesoro americani. Con 2.000 miliardi di dollari di riserve ufficiali, la Repubblica Popolare è uno dei più importanti investitori in T-Bonds. L´ultimo decennio di crescita dell´economia mondiale si è retto sulla complementarietà fra Stati Uniti e Repubblica Popolare: all´alto debito dei consumatori americani faceva da corrispettivo l´alto risparmio delle famiglie cinesi; i disavanzi commerciali Usa che andavano a gonfiare le riserve valutarie di Pechino venivano «riciclati» regolarmente dai banchieri cinesi con la sottoscrizione dei titoli pubblici americani.

In realtà non sembra ancora essere all'orizzante una fuga Cinese dal debito sovrano USA (e nel proseguio dell'articolo anche Rampini lo fa notare). Come riporta Brad Setser, a Novembre la Cina ha diminuito l'acquisto di buoni del tesoro americano a lungo termine per l'ammontare di 9,2 miliardi di dollari. In compenso però, ha aumentato i suoi acquisti di debito a breve scadenza per ben 38,2 miliardi. Di fatto la Cina sembra preferire debito a breve termine, probabilmente per difendersi da eventuali fluttuazioni nel valore dei buoni a lungo termine più esposti a repentini cambiamenti. In effetti, i buoni a 10 anni, sono passati da un rendimento minimo il 30 Dicembre del 2,06% al 2,68% della scorsa settimana, evento ritenuto da alcuni, essere il primo segnale dello sgonfiarsi della bolla sui buoni del tesoro americani.

Nonostane alcune frizioni stiano comparendo, continuo a ritenere sia ancora prematuro ipotizzare un reale scontro tra Cina e USA, anche se inevitabilmente aumenteranno le tensioni tra i due paesi nel prossimo futuro.

Alcune tensioni potrebbe sorgere anche tra Giappone e Stati Uniti. Un altra dichiarazione rilasciata da Geithner che ha fatto sollevare più di un sopracciglio è stato l'avvertimento nei confronti del Giappone di non intervenire nel mercato valutario per cercare di contenere l'apprezzarsi dello yen. Il Giappone è uno stato fortemente dipendente dalle esportazioni. Una valuta forte va contro i suoi interessi economici. A Dicembre le esportazioni giapponesi sono crollate di uno spaventoso 35%, dopo un calo del 26,7% il mese precedente. Diverse aziende giapponesi, come honda e toyota, stanno minacciando di spostare la produzione all'estero se lo yen dovesse continuare ad apprezzarsi. La sony ha annunciato perdite pari a 3 miliardi di dollari, 2 miliardi in più rispetto alle attese degli analisti ed ha annunciato licenziamenti per 16000 unità di qui al 2010.

Nonostante gli appelli di Geithner se lo yen dovesse continuare a rivalutarsi il governo del paese del Sol Levante non potrà fare a meno di intervenire sul mercato valutario. La pensa in questa maniera Eisuke Sakakibara, ex vice ministro delle finanze giapponese conosciuto ai più con il soprannome di Mr Yen. In un intervista al Financial Times, Sakakibara ha detto di aspettarsi un intervento da parte del ministero del tesoro, nel caso lo yen dovesse superare quota 85 contro il dollaro. Sakakibara prevede che lo yen si apprezzerà ulteriormente nei confronti del biglietto verde una volta esauritasi "l'Obama euforia".

Non sembra ventilare una qualche reale rottura tra Giappone e Stati Uniti, ma ritiene che le autorità americane saranno costrette a cedere di fronte alle richieste giapponesi e che i due paesi concorderanno insieme un intervento volto al contenere l'aumento della valuta orientale. Secondo il Financial Times, anche Mr Yen sembra predire una "depressione globale" simile a quella degli anni 30, ma come nel caso di Pritchard e Buiter, Sakakibara trova conforto nel fatto che al contrario di allora, oggi, i governi di tutto il mondo sembrino collaborare tra loro.

Auguriamoci che questa forzata collaborazione duri a lungo e che alcuni politici riflettano due volte prima di aprire la bocca.

mercoledì 21 gennaio 2009

La morte della speranza

Barack Obama, l'angelo del cambiamento, l'uomo che grazie a non si sa bene quale misterioso super potere dovrebbe curare i mali dell'America e del mondo, si è finalmente insediato alla casa bianca. Il mercato ha gioiosamente festeggiato l'evento colando a picco.

Mentre l'araldo della speranza occupava il posto che gli compete dietro allo scranno dello studio ovale era proprio la speranza a venire crudelmente massacrata nelle borse di mezzo mondo.

Una falsa speranza intendiamoci.

L'illusione che la situazione fosse risolvibile con mezze misure. Dei rimedi che non andassero a colpire il problema alla radice. L'infantile convinzione che fosse possibile fare il bagno in una pozza di letame ed uscirne puliti e profumati.

Ora, anche questa ridicola speranza sembra essersi infranta. Il bagno di sangue che ha coinvolto i titoli delle principali banche Inglesi e Statunitensi ha reso evidente a tutti come la situazione del comparto bancario non fosse minimamente migliorata. I tentativi da parte degli stati di salvare qualunque istituto hanno solo trasferito ad essi il rischio. Adesso oltre alle banche, intere nazioni si trovano a traballare, a flirtare con un evento chiamato "default" che sembra ricambiare amorevolmente ogni dimostrazione di affetto.

Standard & Poor's ha recentemente tagliato il rating della Spagna portandolo da AAA a AA+. Un evento francamente prevedibile. Come illustrai nello scorso post, la Spagna si trova a fronteggiare un declino preoccupante nato dalla combinazione di un eccessivo ricorso all'indebitamento, una crescita economica finta basata su di esso e dalla progressiva perdita di competitività. Pritchard sul Telegraph sembra suggerire alla Spagna di abbandonare l'Unione Europea, di ripristinare una sua moneta e svalutarla nel tentativo di compensare gli squilibri interni. Immagino che Pritchard sarebbe deliziato da un evento simile. E' sempre stato anti europeista (o euro scettico se preferite) e non si è mai preoccupato di nasconderlo.

Peccato che l'uscita dall'euro per un qualunque paese membro (tranne forse Francia e Germania) rappresenterebbe per esso un biglietto di sola andata per l'inferno. Non succederà, per quante minacce in tal senso alcuni stati possano lanciare. L'Irlanda ha già cominciato: "salvateci o lasceremo l'Europa" ha dichiarato David McWilliams, ex membro della banca centrale Irlandese. La rabbia di McWilliams è rivolta in particolar modo a Francia e Germania. I due grandi paesi sono accusati di non voler sostenere i membri più malandati dell'area euro accettando di pagarne il relativo prezzo.

La maggior parte degli economisti sembra essere concorde nell'affermare che Spagna ed Irlanda avrebbero bisogno di una svalutazione monetaria per rilanciare il settore dell'export, unica strategia secondo McWilliams e Pritchard in grado di mitigare l'impatto della crisi economica. Una strada non percorribile nel contesto della moneta unica. L'alternativa ad una svalutazione competitiva sarebbe una massiccia riduzione delle retribuzioni. Un genere di politica che difficilmente verrebbe accettata placidamente dalla popolazione. Il rischio di proteste violente o vere e proprie rivolte diventerebbe troppo alto.

Nessun politico sano di mente correrebbe simili rischi potendolo evitare. Inoltre, anche adottando limitati provvedimenti in questo senso, Spagna e Irlanda si scontrerebbero con misure simili intraprese dagli altri grandi paesi Europei. Se anche la Germania e la Francia riducessero le proprie retribuzioni, ogni misura di questo tipo intrapresa da Spagna e Irlanda verrebbe nullificata.

I paesi più deboli dell'euro zona si trovano letteralmente tra l'incudine e il martello. Se escono dall'euro si suicidano. Se non lo fanno moriranno poco alla volta.

La forza della moneta unica sta impattando anche sul settore turistico. La Spagna ha perso nel 2008 un milioni di turisti inglesi che le hanno preferito mete più economiche e le prospettive per l'anno in corso sono ancora peggiori. Il turismo rappresenta il 10% del PIL in Spagna, l'11,4% in Italia, il 15% in Grecia.

Francia e Germania si dovranno rassegnare ed accettare una svalutazione dell'euro o dovranno inventarsi qualche forma di sostegno diretto nei confronti dei paesi traballanti.

Non dobbiamo comunque preoccuparci dell'eventuale default di uno stato che adotta la moneta unica, almeno a sentire Almunia:

"Il rischio default esiste sempre, nel privato come nel pubblico, ma non penso che nell'area euro i rischi siano importanti e significativi". Lo ha detto il commissario europeo Joaquin Almunia, rispondendo alla domanda di un giornalista e spiegando che "rappresenta un elemento di disciplina di mercato lo spread ora più alto", vale a dire l'aumento della differenza tra i tassi di interesse che gli Stati pagano sulle nuove emissioni dei loro titoli.

Con disciplina da parte degli stati, presumo che Almunia intenda: calo della spesa pubblica, diminuzione delle retribuzioni ed eventualmente, ma non necessariamente, un aumento delle tasse. Quasi tutti gli economisti invece, invocano in coro la necessità di interventi di riduzione fiscale, l'incremento della spesa pubblica come misura anti ciclica ed un aumento dei consumi da parte della popolazione. Come molti avevano previsto ci troviamo in piena fase schizofrenica.

Se molti paesi dell'euro zona se la passano male l'Europa dell'est sta semplicemente esplodendo. Lettonia e Bulgaria sono state teatro, la scorsa settimana, di proteste sfociante in scontri violenti con le forze dell'ordine. Nei due piccoli paesi si sta creando una saldatura tra la classe media e la popolazione giovane. Entrambe si sentono defraudate ed ingannate dal proprio governo accusato di averle abbandonate nel pieno della crisi economica e di averle lasciate senza prospettive per il futuro. In entrambi i paesi le tasse sono state innalzate e la spesa pubblica ridotta. A questo si va ad aggiungere un tasso di disoccupazione in costante crescita ed il rifiuto da parte del sistema bancario di estendere credito alla popolazione. Una combinazione esplosiva di fattori.

Ungheria e Lituania si trovano in condizioni simili, mentre ai margini dell'Europa l'Ucraina è ormai un morto vivente. La moneta locale ha perso il 38% contro il dollaro nell'ultimo anno, la borsa è crollata dell'85% ed i buoni del tesoro devono promettere il rendimento più alto al mondo se si esclude quello dei buoni ecuadoregni (un paese che dichiarò default a dicembre). L'unica cosa che ancora mantiene in vita l'Ucraina è il prestito da 16,5 miliardi di dollari concessole dall'FMI. Il paese rischia di scoppiare così come è successo all'Islanda. Nella piccola isola del nord, una popolazione ormai esasperata sta ricorrendo con sempre maggiore frequenza a forme di protesta violenta.

La notizia del momento però, rimane l'aggravarsi della situazione Inglese, conseguenza diretta della terribile condizione in cui versa il suo sistema bancario. Un articolo di Iain Martin sul Telegraph non usa mezzi termini: "Gordon Brown ha portato la Gran Bretagna sull'orlo della bancarotta" è il titolo. Dice Martin:

Non sanno cosa stanno facendo, non vi sembra? Ogni nuovo passo intrapreso dal governo nel frenetico tentativo si sostenere il sistema bancario Britannico, rende questa verità sempre più evidente (...)

Il salvataggio da parte del Governo delle banche ad Ottobre tramite l'uso di 37 miliardi di sterline a carico dei contribuenti, avrebbe dovuto secondo il primo ministro "salvare il mondo", ma ora è chiaro che non è stato neppure in grado di salvare le banche. Il nostro denaro ha fatto continuare lo spettacolo per soli tre mesi.

Come ha chiesto il portavoce per i Liberali Democratici Vince Cable: dove sono finiti i 37 miliardi? La risposta, come Cable ben sa, è che sono spariti nel tubo di scarico.

Sta finalmente balenando nella mente del Governo la nozione che gli obblighi delle banche Inglesi siano cresciuti in maniera così massiccia durante gli anni del boom da arrivare ad eclissare l'intera economia. Sfortunatamente, il tesoro si è impegnato ad onorare questi obblighi garantendo che nessuna banca verrà lasciata fallire. RBS ha obblighi per 1,8 trilioni di sterline, 3 volte le spese annuali del governo Inglese, contro 1,9 trilioni di assets. Ma dopo gli eventi dello scorso anno, scommetto che molti contribuenti credano che la realtà sia ancora peggiore.
Conclude Martin:

In questa deprimente situazione, al primo ministro rimane un unica flebile speranza: che in qualche maniera, grazie alla forza della sua personalità il nuovo presidente Obama riuscirà a imbastire un rapido recupero dell'America ripristinando la fiducia globale, energizzando i mercati e facendo dimenticare a tutti questo brutto sogno.

Obama è pieno di talento, ma non è un mago. L'incubo di Gordon Brown, in cui siamo tutti intrappolati è destinato a diventare ben peggiore.


Brown e Darling vanno in giro a raccontare che non sia compito del governo possedere o gestire delle banche, come a voler rassicurare le borse contro ogni ipotesi di nazionalizzazione. A giudicare dal tracollo dei titoli delle maggiori banche Inglesi gli investitori non sembrano essersela bevuta. Tutti scappano dato che in caso di nazionalizzazione il valore delle azioni verrebbe azzerato. Un analista della Nomura (una delle principali banche Giapponesi) ha dichiarato: " Noi riteniamo che se le ultime misure si dovessero dimostrare insufficienti, allora le autorità si ritroverebbero, probabilmente, prive di alternative oltre alla completa nazionalizzazione".

Pritchard afferma che la via intrapresa dall'Islanda, di parcheggiare altrove supervisionate da dei comitati, le perdite del proprio sistema bancario sia preclusa all'Inghilterra. Se essa provasse a scappare dai 4,4 trilioni di dollari di esposizione totale delle sue banche, scatenerebbe il finimondo sull'intero pianeta e comprometterebbe in modo permanente la posizione della City di Londra.

Jim Rogers storico investitore e vecchio compagno di scorribande di Soros ha detto alla Bloomberg Television: " Vi invito a vendere ogni sterlina che possedete. E' finita. Odio doverlo dire, ma non investirei nessun soldo in Inghilterra".

Soros dal canto suo sembra ancora più agitato: "Le economie del mondo stanno cadendo giù da un precipizio. Questa situazione è paragonabile a quella degli anni 30. E una volta che lo si riconosce, bisogna anche riconoscere che l'entità del problema è ancora più elevata".

Il riconoscimento di cui parla Soros è esattamente quello di cui il mondo ha bisogno. Che i politici e gli economisti non sapessero bene che pesci prendere era chiaro da un pezzo a chi voleva vedere la realtà. Il problema centrale di tutta la crisi economica attuale non è mai stato particolarmente arduo da comprendere. Il debito del sistema è cresciuto troppo rispetto alla ricchezza che il sistema stesso è in grado di produrre. Per ovviare a questo inconveniente il sistema ha cominciato a pagare il debito esistente contraendo dei nuovi debiti. Questo non ha fatto che peggiorare la situazione facendo aumentare il debito stesso e ci ha condotto in una strada senza uscita. Siamo arrivati al punto in cui il sistema è saturo di debito e non è più in grado di accettarne di nuovo.

Il momento in cui i debiti vanno pagati per davvero o in cui bisogna dichiarare default.

E dato che la ricchezza che produciamo non è sufficiente per pagare quella parte di debito necessaria a tenere in piedi la baracca, l'alternativa è una sola.

Non ci vogliono quattro lauree per arrivare a comprendere questa semplice realtà. Il debito cresce seguendo una funzione esponenziale e quando una funziona del genere si scontra con i limiti del mondo reale prima o poi collassa. E' sempre stato irrealistico illudersi che la crescita economica dei vari stati potesse stare per lungo tempo dietro a una funzione simile. Da questo punto di vista il grafico che pubblicai più volte e che riporta l'andamento del rapporto tra debito totale degli USA ed il loro PIL è tutt'altro che ambiguo:

Il vertiginoso aumento del rapporto dalla metà degli 90 in avanti avrebbe dovuto far scattare un campanello d'allarme.

Ora sembra che piano piano, il problema stia diventando materia di discussione. Sorprendentemente un articolo di Massimo Mucchetti sul sito del corriere affronta la questione:

La reazione di Barack Obama si fonda su un aumento della spesa, che si aggiunge al costo delle manovre dell’ultimo Bush. Stiamo parlando di 800 miliardi di dollari di stimolo all’economia oltre la cifra analoga che la Federal Reserve è già impegnata a spendere a sostegno delle banche. Il presidente eletto eredita un Paese che ha un debito totale (imprese, famiglie, settore finanziario ed esteri) di 51.849 miliardi di dollari a fronte di prodotto interno lordo di 14.412. Un debito pari al 359,7% della ricchezza prodotta ogni anno. Nel 2009 la componente pubblica di questo debito è destinata a aumentare allo scopo, se non altro, di contenere quella privata consentendo a famiglie e imprese di sopravvivere. E già oggi, a seconda di come si effettua il conteggio, il debito pubblico americano avvicina o addirittura supera il prodotto interno lordo. Come segnalano Reinhart e Rogoff, del resto, nei tre anni successivi alle crisi bancarie passate il debito pubblico è aumentato dell’ 86%, perché non è con le pur necessarie manovre sui tassi, effettuate dalle banche centrali, che si superano queste crisi così gravi, ma con la spesa pubblica fatalmente finanziata con il debito pubblico. Se però si guarda all’esperienza degli Stati Uniti della Grande Depressione si dovrà andare oltre le rilevazioni dei due economisti. Perché quando, nel 1941, il prodotto interno lordo espresso in moneta corrente tornò finalmente ai livelli pre-crisi del 1929, il debito totale americano si era dimezzato. E tutti sanno che esistono solo quattro modi per tagliare drasticamente un debito: l’insolvenza, la bancarotta, l’inflazione e la cancellazione del debito mediante un Giubileo di biblica memoria come ironicamente ricorda Niall Ferguson sul Financial Times o attraverso la conversione dei debiti in azioni, come suggeriva Guido Carli all’Italia degli anni Settanta.

L'utilità di interventi economici come quelli annunciati da Obama è discutibile dato che essi non vanno ad incidere minimamente sul cuore del problema. La gente e le aziende non riescono più ad indebitarsi creando così denaro sufficiente a far si che il sistema riesca a ripagare i propri debiti? "Che si indebiti lo stato e sia esso a mettere in circolazione del denaro" viene suggerito da troppi.

Non serve a gran che.

Intanto l'intervento va nella direzione sbagliata tendendo a comporre il problema più che a risolverlo. Secondo, difficilmente uno stato sarà in grado di indebitarsi a sufficienza da compensare il mancato indebitamento privato.

L'unica strada da percorre è quella di lasciare che il debito cali.

Ricorrere all'inflazione, ridurrebbe il valore del denaro e quindi anche l'entità del debito scaricandolo di fatto sulle spalle di tutta la popolazione, su chi è stato prudente e su quelli che si sono indebitati fino al collo. Se io ho un debito di 100 euro ed improvvisamente qualcuno stampa abbastanza denaro da far si che il loro potere d'acquisto cali talmente tanto da non bastare neppure per acquistare una confezione di caramelle, questo qualcuno ha di fatto annullato il mio debito. Questa strategia funzionò benissimo in Germania durante anni 20. Molti ripagarono i propri debiti. L'intera economia tedesca però ne uscì distrutta. I cittadini strangolati dall'inflazione si trovarono ben presto a far la spesa con la carriola (usata al posto del portafoglio). Nel caos che seguì Hitler arrivò al potere. Il resto della storia la conosciamo tutti.

Un articolo sull'Economics Times suggerisce proprio l'approccio inflativo. Afferma che sia politicamente e socialmente inaccettabile far fallire la gente e che al massimo si possa cercare di prolungare in qualche modo il pagamento del debito aumentando nel frattempo l'inflazione.

Karl Denninger sul suo Blog ha rilanciato quello che ha sempre ritenuto essere l'unico approccio possibile. Un approccio che ricorda da vicino la soluzione avanzata da Guido Carli: fare chiarezza sui bilanci delle banche, ridurne l'esposizione accollando le perdite agli azionisti, sia quelli in possesso di azioni comuni che di azioni privilegiate e trasformare le obbligazioni in quote azionarie. In questo modo i bilanci degli istituti si ripulirebbe permettendolo loro di tornare a prestare denaro ed allo stesso tempo verrebbe fatta trasparenza sulle reali condizioni del comparto bancario in modo da ripristinare la fiducia degli investitori. Per quel che riguarda l'indebitamento privato Denninger suggerisce di lasciar semplicemente fallire la gente. Chi ha rischiato imprudentemente dovrebbe accollarsi le sue responsabilità senza scaricarle sulle spalle di tutti.

Su un possibile Giubileo globale, sono in molti ultimamente a "scherzarci" su. Per chi non lo sapesse, una volta durante i Giubilei avveniva la remissione del debito. Esso veniva cancellato: "chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato". "Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori". Il fatto che un concetto del genere si ritrovi nelle preghiere sacre, mostra come fosse risaputo anche in passato che prima o poi il debito inevitabilmente scappa e finisce con lo scoppiarci in faccia. Nel Levitico (se non sbaglio) la Bibbia prescriverebbe la cancellazione del debito ogni 50 anni.

Il solito Pritchard dice:

Presi nel complesso, i pacchetti di salvataggio potrebbero fare la differenza tra una recessione globale e un arretramento più marcato in grado di causare disoccupazione di massa e disordini sociali, forse distruggendo quell'ordine globale di apertura che prendiamo per acquisito. Se sia davvero così possiamo solo supporlo.

Non abbiamo nessuna garanzia che le misure adottate funzioneranno. Il vasto indebitamento dei governi in corso, potrebbe esaurire le riserve di capitale globale. I mercati stanno già cominciando a mettere in discussione la solvibilità di stati sovrani. La Fed potrebbe trovare più difficile di quanto pensa ritirare i suoi colossali interventi sul mercato obligazionario.

In definitiva, l'unica strada per uscire da questo debito globale potrebbe essere un Giubileo di Biblica memoria.

Ai creditori questo non piacerà.


Ovviamente quella del Giubileo non è realmente una strada percorribile. Ve lo immaginate Obama che va dai cinesi col sorriso sulle labbra e dice: "Sorpresa! Avete lavorato 13 anni in cambio di nulla. Dovremmo rifarlo uno di questi giorni".

Chi legge questo Blog sa benissimo come la penso. Una riduzione del debito è inevitabile e lasciar fallire la gente rimane la via meno dolorosa per farlo. Per quel che riguarda le banche propendo per la soluzione di Denninger e dove non fosse applicabile per un approccio di tipo svedese. Durante la crisi bancaria dei primi anni 90, scatenata dallo scoppio di una bolla immobiliare (il mercato immobiliare scese del 50-60% in 18 mesi) che una serie di deregolamentazioni aveva generato, la Svezia dopo vari e inefficaci interventi si dovette rassegnare nazionalizzando numerose banche. Il managment degli istituti in questione venne licenziato e il valore delle azioni azzerato. Le perdite sugli assets in possesso delle banche scritti a bilancio, facendo così chiarezza sulle condizioni del comparto, e le banche bisognose ricapitalizzate dallo stato. Il governo svedese ad un certo punto arrivò a possedere il 20% dell'intero sistema bancario. Una volta che la situazione si stabilizzò la Svezia si liberò delle sue quote vendendole sul mercato e riuscendo perfino a trarne un guadagno.

La recente carneficina in borsa del settore bancario, rivela la sfiducia che gli investitori nutrono sulla condizione degli istituti. Temono che le perdite siano ben più ingenti di quelle presunte o dichiarate e che una nazionalizzazione potrebbe essere prossima. Questo sta facendo crollare l'illusione che bastasse qualche assicurazione verbale o una semplice garanzia finanziaria da parte degli stati a calmare le acque e grazie al cielo sta portando alla ribalta uno dei fondamentali problemi: quella dell'effettiva condizione dei bilanci bancari. Finché non si fa chiarezza su questo punto non ci potrà essere una reale ripresa.

Quello sarebbe il primo passo da fare.

Seguito da una riduzione del debito, scaricando le perdite derivanti dai debiti non ripagabili sulle spalle di chi se lo merita. Un debito non ripagabile è una perdita. Per troppo tempo siamo andati avanti facendo finta che queste perdite non esistessero, forse nella speranza che se ci credevamo con tutte le nostre forze esse sarebbe magicamente scomparse. Le perdite però sono sempre li ed il mercato ancora una volta sta chiedendo a gran voce che si sappia quante sono e sulle spalle di chi gravano.

A questo riguardo Obama non potrà fare nulla. Finché lui e suoi equivalenti politici degli altri stati non decideranno di agire seriamente affrontando le radici del problema non usciremo da questa situazione. Anche se temporaneamente le acque dovessero calmarsi, tra qualche mese ci troveremmo di nuovo nella stessa situazione degli ultimi giorni.

Spero solo che assieme alla morte di ogni illusione sulla condizione finanziaria delle banche Inglesi e Americane muoia anche e in maniera definitiva, la speranza che si possa risolvere questa crisi evitando di affrontarne direttamente la causa.

venerdì 16 gennaio 2009

L'anno del terrore (seconda parte)

In questi giorni stanno fioccando senza interruzione notizie economiche di una certa rilevanza, come ad esempio le nuove manovre studiate dalla Citigroup per uscire da un agonia che si trascina da più di un anno, Bank of America che potrebbe fare la stessa fine della Citi o il possibile collasso di buona parte del sistema pensionistico americano. Mi piacerebbe tanto avere quattro mani a disposizione e potere scrivere qualcosa a riguardo. Purtroppo devo rassegnarmi e limitarmi a terminare alcuni articoli rimasti in sospeso, tra cui questo che mi trascino dietro dalla scorsa estate.


Europa

Non esiste un modo carino di dirlo: la situazione Europa è un completo casino. L'Unione Europea comprende 27 paesi di cui solo una parte adotta la moneta unica. Alcuni come Danimarca e l'Inghilterra mantengono la propria valuta per esplicita scelta, altri come i paesi dell'est aspettano con ansia il momento in cui entrerà, anche per loro, in vigore l'euro. Le economie dei vari membri dell'unione inoltre, sono imperneate su alcuni specifici settori e necessiterebbero ognuna di una politica monetaria su misura. La politica della BCE risponde principalmente ai bisogni di un economia basata sulla produzione industriale di alto livello come quella tedesca e di conseguenza finisce col danneggiare inevitabilmente i "pigs", come li chiamano gli inglesi, (anche se a quanto pare il termine venne coniato da un membro della deutsche bank) i paesi dell'area mediterranea caratterizzati da alti deficit pubblici e specializzati in produzioni di basso livello.

Prima però di lanciarmi in previsioni sul futuro dell'Europa vorrei che deste un occhiata alla tabella sotto compilata dalla Bespoke Investment Group:



Essa riporta l'aumento del "rischio paese" registrato dai cds a 5 anni tra il mese di Novembre e quello di Dicembre. Come si può notare i paesi ad aver peggiorato in misura maggiore la propria situazione sono tutti Europei. Ai primi posti infatti, si trovano alcune tra le nazioni più pericolanti dell'area euro: Irlanda, Austria, Grecia. Più in generale però è stata l'intera Europa ad essere percepita a Dicembre, come un luogo molto più rischioso dal punto di visto finanziario, di quanto non fosse il mese precedente.

Va precisato che i cds sul debito sovrano sono uno strumento volubile, soggetto ad improvvise fluttuazioni e dall'utilità discutibile. Quando un intera nazione fallisce chi ha rilasciato assicurazioni contro un simile evento di solito tende a non avere abbastanza denaro per soddisfare tutte le richieste di rimborso. In sostanza fallisce anch'esso. Come ha illustrato Bank of America in un suo studio, i cds sul debito sovrano non servono a nulla o per dirla con le parole usate da Tracy Allowy in un articolo su FtAlphaville: "è inutile che vi prepariate per l'Armageddon. Sarete morti comunque".

Rimangono però un buon indicatore del rischio sul breve termine.

La tabella successiva della Bespoke riporta il costo dei cds a 5 anni per i singoli paesi:



Secondo questa tabella i paesi dell'eurozona, il cui debito sovrano è più costoso da assicurare e che quindi vengono ritenuti più rischiosi sono nell'ordine: Grecia, Irlanda, Italia, Austria, Spagna e Portogallo. Se un fallimento avverrà, tra i paesi che attualmente adottano l'euro, riguarderà con tutta probabilità, una di queste nazioni. Il che ci riporta alla domanda che ho posto (al nulla) più di una volta: "Che succede se un paese Europeo fallisce?"

Se si dovesse trattare di una nazione di dimensioni limitate e con un PIL di circa 250 miliardi di dollari come l'Irlanda, il resto dell'Europa potrebbe provare ad intervenire in qualche maniera, erogando prestiti o liquidità sotto altre forme, ma già con l'Austria il cui PIL si aggira attorno ai 380 miliardi di dollari la situazione si farebbe ingestibile, per non parlare ovviamente di cosa succederebbe in caso di fallimento Spagnolo o Italiano.

Se una delle grandi nazione all'interno dell'Unione dovesse arrivare al fallimento, rischierebbe seriamente di venire esclusa dall'euro con ripercussioni terribili sia per la moneta unica che per l'Unione, la cui stessa integrità verrebbe posta in discussione.

Paesi come l'Irlanda, l'Austria, la Grecia, la Spagna e l'Inghilterra, in un modo o nell'altro, si sono infognati fino alla radice dei capelli nella gigantesca bolla creditizia che ha investito le economie di tutto il mondo dal 2003 in avanti e adesso, dopo anni di rapida crescita si trovano costretti a fare i conti con un altrettanto rapido declino .

Il caso della Irlanda si può riassumere con una battuta che circola tra gli economisti: "l'unica differenza tra l'Irlanda e Islanda risiede nella lettera r". In effetti l'Irlanda sembra avere seguito accuratamente la ricetta islandese sovraesponendo il proprio settore bancario ad una gigantesca bolla immobiliare, facendolo giocare con tanti pezzettini di carta dal dubbio valore e attirando ingenti capitali esteri grazie alle favorevoli condizioni fiscali. Quando la bolla è scoppiata le banche irlandesi si sono trovate ad un passo dal fallimento e come sempre accade in questi casi è dovuto intervenire lo stato a salvarle. I capitali esteri invece, data la condizione interna del paese stanno prendendo il volo.

L'Irlanda si trova ora garantire 400 miliardi di euro di esposizione del suo comparto bancario, una cifra due volte superiore al suo PIL. La disoccupazione nel paese è salita rapidamente fino a toccare il 10% mentre i consumi sono crollati. L'unica cosa che ha impedito alla piccola Irlanda di fare la fine dell'Islanda è stato l'ombrello protettivo offerto dall'euro. Se l'Irlanda avesse avuto una valuta locale il valore di quest'ultima sarebbe precipitato da tempo, trascinando nell'abisso assieme ad esso l'intera economia.

Quello da cui l'euro però, non può difenderla è la Standard & Poor's. La famosa agenzia di rating ha posto sotto osservazione il rating dell'Irlanda, insieme a quello di Spagna e Portogallo, in vista di un possibile declassamento.

Anche in Spagna infatti, si sta consumando una carneficina economica. Come l'Irlanda e l'Inghilterra, la Spagna si era lanciata dai primi anni del 2000, in una folle bolla immobiliare con tutti gli annessi e connessi del caso. Una massa gigantesca di finanziamenti invase il paese grazie ai bassi tassi di interesse adottati dalla BCE. Nel grafico sotto si può notare come da metà del 2003 fin quasi all'inizio del 2007 il tasso di interesse reale sia stato pesantemente negativo (il tasso di interesse era inferiore al tasso d'inflazione). L'incentivo ad indebitarsi era troppo forte e gli Spagnoli vi risposero entusiasti.

Il denaro a basso costo che il settore bancario Spagnolo si trovò a disposizione venne riversato in parte sul mercato immobiliare e derivati connessi, ed in parte fu usato per finanziare i paesi emergenti in America Latina nei confronti dei quali le banche Spagnole sono esposte, secondo i dati della BIS (banca per i regolamenti internazionali) per più di 300 miliardi.

Il debito esterno del paese è praticamente raddoppiato nel giro di 4 anni passando dagli 870 miliardi di euro nel terzo quarto del 2004 ai 1686 nel terzo quarto del 2008 (il 155% del PIL).


Ora che le varie bolle sono scoppiate una dietro l'altra (o se preferite la gigantesca bolla che avvolgeva l'intero pianeta) la Spagna si trova a dover fronteggiare una situazione interna che si va progressivamente deteriorando. A Dicembre il PMI (purchasing manager index) un indice dell'attività manifatturiera si è attestato a quota 32,1 (sotto i 50 punti si parla di contrazione della produzione industriale). Il tasso di disoccupazione ha toccato a Novembre il 13,4% mentre la produzione industriale è crollata del 15,1% anno su anno. Gli economisti Spagnoli, preoccupati dall'aumento spaventoso della disoccupazione, discutono animatamente, cercando di prevedere il livello massimo che essa arriverà a toccare prima che la crisi completi il suo corso. C'è chi prevede un tasso di disoccupazione del 20% e chi parla addirittura di un 25%, un livello da grande depressione. Nel frattempo l'America latina nei confronti della quale le banche spagnole sono esposte, sta declinando a grande velocità.

La situazione in Austria è simile a quella spagnola. Fortunatamente gli austriaci non si sono lanciati in speculazioni immobiliari paragonabili. In compenso però, le banche Austriache hanno pensato bene di investire circa 290 miliardi di euro nei paesi dell'Est Europa e dell'Europa centrale - dall'Albania alla Russia - paesi che potevano vantare durante gli anni del boom, tassi di crescita molto elevati grazie all'afflusso di capitali esteri ed al facile accesso al credito, ma che stanno ora agonizzando mantenuti in vita da una flebo di prestiti che l'FMI e l'Europa stessa ha concesso loro. Il governo Austriaco negli scorsi mesi è intervenuto, a suon di miliardi di ricapitalizzazione, per sostenere il proprio settore bancario. Questo almeno è la facciata. In realtà tutti sanno perfettamente che gran parte del denaro andrà a sostenere i paesi dell'Est che senza il sostegno delle banche austriache non potrebbero sopravvivere. Il fallimento di anche uno solo di questi paesi scatenerebbe una reazione a catena profondamente distruttiva, che a partire dall'Austria investirebbe l'intera l'Unione.

Lo stato Europeo, però, che ultimamente si è imposto con prepotenza all'attenzione generale è la Grecia. Come rivela un articolo del Telegraph, negli ultimi anni, il settore delle spedizioni di merci via mare ha sostituito il turismo diventando il primo settore dell'economia Greca. Gli armatori del paese controllano un terzo del mercato delle spedizioni all'ingrosso via mare del pianeta e per finanziare le proprie operazioni si sono rivolti al sistema bancario bancario internazionale, prevalentemente banche inglesi. Ora il commercio marittimo è precipitato ai minimi termini. L'indice del baltico si è quasi azzerato, crollando del 96% dal picco dell'estate scorsa. Inoltre, le banche Greche si erano date allo shopping immobiliare nell'area dei Balcani (Serbia e Macedonia in particolar modo), ed in Turchia. Altri paesi le cui debolezze economiche sono venute alla luce in seguito alla crisi economica. Non è sorprendente che la Grecia stia accusando in maniera particolare la crisi. Il paese ha un altissimo rapporto debito/pil (94%) mentre il deficit è pari al 15% del PIL (il più alto dell'eurozona). Due giorni fa Standard & Poor's ha tagliato il rating del paese portandolo da A ad A-, evento che contribuirà ad aumentare la pressione nei confronti degli altri stati Europei sotto osservazione.

La situazione Italiana purtroppo, meriterebbe un post a se stante. L'Italia è un paese immobile: non è cresciuto particolarmente durante gli anni della follia creditizia, ma almeno adesso, non si trova a dover precipitare per ribilanciare passati eccessi. Nonostante ciò la borsa Italiana non si è difesa bene nell'ultimo anno, come si vede nella tabella sottostante.



Tra i paesi dei G7 siamo quello che ha riscontrato le perdite più marcate. Non siamo i peggiori in Europa, ma sotto di noi troviamo ancora una volta i soliti sospetti: Austria, Grecia, Irlanda ecc.

I problemi dell'economia italiana sono diversi a partire da un altissimo debito pubblico che non vuole saperne di diminuire. Anzi, come era per altro prevedibile in una situazione di crisi economica, il debito è aumentato arrivando a 1.670,6 miliardi di euro. Il fabbisogno del settore statale sta salendo rapidamente: è passato dai 26,5 miliardi del 2007 ai 52,9 del 2008. I redimenti dei bot italiani allo stesso tempo hanno toccato i minimi storici. Non è un bel segnale. Riflette la grande paura degli investitori e dei piccoli risparmiatori e la loro diffidenza nei confronti del mercato azionario. Riguardo ai titoli di stato a fronte di una grande domanda da parte dei soggetti più piccoli, va segnalato che lo scorso mese andarono deserte 3 aste per specialisti. Gli specialisti sono acquirenti all'ingrosso dei titoli di stato (se volete farvi tanto male qua trovate la definizione precisa), essenzialmente banche e grossi istituti finanziari. Non è rassicurante il pensiero che i grandi soggetti non si fidino particolarmente del debito sovrano dell'Italia. La risposta del tesoro a questo avvenimento è stata:

''Cio' che stupisce - prosegue il Tesoro - e' che MF confonda le aste, il cui esito e' quello sopra descritto, con i collocamenti supplementari riservati agli Specialisti in titoli di Stato, ai quali e' data facolta', fino alle ore 15,30 del giorno successivo all'asta, di sottoscrivere - al prezzo di aggiudicazione - una percentuale del quantitativo offerto nell'asta medesima (in questo caso pari al 10%). Si tratta pertanto di un collocamento a tasso fisso, di cui gli Specialisti si avvalgono a loro esclusiva discrezione, e il Tesoro, nella sua programmazione delle emissioni non fa affidamento sulla copertura potenziale che ne deriva (pur tenendone conto, com'e' ovvio, nel calibrare i quantitativi delle emissioni successive)''.

''Se si fa una retrospettiva dei collocamenti supplementari - conclude la nota del Ministero - la loro natura di ''opzione'' a disposizione degli Specialisti emerge con chiarezza, non essendo affatto raro, anche in condizioni di mercato particolarmente favorevoli, che non vi siano richieste in tale fase. Si sottolinea che i collocamenti supplementari, configurati giuridicamente come tranche a se' dei titoli in emissione, esistono dal 1994''.
La risposta del ministero è convincente solo in parte. Considerando l'alta domanda da parte dei privati di buoni del tesoro, non vedo per quale calcolo bizzarro gli specialisti non dovrebbero sfruttare un opzione simile messa a loro disposizione se non per una implicita mancanza di fiducia. L'Italia è il paese Europeo che spende di più in interessi sul proprio debito (circa il 5% del Pil) e quest'anno dovrà rinnovare aprossimativamente un 20% di esso (si parla di una cifra attorno 300 miliardi di euro). Sebbene l'andamento attuale faccia ritenere che non sarà un problema per il paese rifinanziarsi è il caso di tenere gli occhi aperti. Data la nostra esposizione basterebbe un brusco strappo sui mercati internazionali a far precipitare la situazione.

Anche se sul versante del finanziamento pubblico dovesse andare tutto bene, la crisi si farà sentire in tutta la sua brutalità negli altri comparti. La nostra economia dipende in buona parte da settori estremamente sensibili a una recessione globale, come il turismo, la produzione di beni di lusso o la quella manifatturiera di basso livello, dalla quale non siamo riusciti a sganciarci quando avremmo dovuto.

La produzione industriale è crollata di un terrificante 12,3% a Novembre rispetto al dato di un anno prima. La banca d'Italia prevede che il PIL del paese scenderà di un 2% quest'anno e avverte che "la dinamica del prodotto potrebbe essere ancora più negativa se prendessero corpo i rischi di un ulteriore indebolimento dell'economia mondiale". Considerando che i rischi "prenderanno corpo", ci baceremo i gomiti se raggiungeremo un -2% di PIL.

Se sui "pigs" sta piovendo acido puro, anche la spocchiosa Inghilterra non si può certo dire all'asciutto. Dopo aver tagliato i tassi al minimo storico (ora sono all'1,5%) da quando è stata fondata nel lontano 1694, provocando il tracollo della sterlina, la banca centrale inglese ha deciso fosse il caso di tenere segreti i propri libri contabili. Essa potrà stampare tutto il denaro che vuole senza che nessuno possa conoscere la quantità che immette in circolazione o per usare le parole di condanna pronunciate da Lord James of Blackheath alla camera inglese:

" Rimuovete questo controllo e non ci sarà nulla in grado di fermare un inondamento non monitorato del mercato del denaro attraverso l'uso indisciplinato della pressa.

Se percorreremo quella via, seguiremo una strada che parte da Weimar, passa attraverso Harare e non deve finire a Westminster e a Londra."

Ancora una volta il tentativo di re-inflazionare il mercato pare evidente. Perché i banchieri centrali si affidino sempre a questa strategia diventa chiaro leggendo un passaggio del famoso discorso che Bernanke tenne nel 2002 e che gli valse il sopranome di "Helicopter Ben":

Nonostante un diffuso "pessimismo inflazionario", durante gli anni 80 ed i 90, la maggior parte delle banche centrali dei paesi industrializzati sono state in grado di ingabbiare il drago dell'inflazione, se non di domarlo completamente. Sebbene un numero di fattori convergenti abbia reso questo risultato possibile, un elemento essenziale è stato l'elevata comprensione da parte delle banche centrali, dei politici e della gran parte del pubblico dell'alto costo che avrebbe consentire all'economia di allontanarsi dalla stabilità dei prezzi.

Tradotto: i banchieri centrali sono convinti di sapere come tenere a bada l'inflazione e quindi non se ne preoccupano particolarmente. Questa è una delle ragioni principali (ce ne sono altre) per cui ricorreranno a tutte le forme di quantitative easing che riterranno necessarie. Chi dice che una banca centrale abbia il potere di creare inflazione in quantità illimitata ha ragione. Una banca centrale potrebbe effettivamente creare denaro e distribuirlo lanciandolo dagli elicotteri come ha minacciato di fare Bernanke o appenderlo ai rami degli alberi come suggerisce Pritchard o ancora infilarlo dentro a delle bottiglie, spargerle per la nazione ed indire poi una gigantesca caccia al tesoro come postulò (scherzando) Keynes.

Sarebbe più corretto dire che una banca centrale, non può creare inflazione in maniera illimitata sperando di conservare intatto un qualcosa che possa essere definito "economia", come dimostra la situazione dello Zimbawe che a 3 settimane dall'introduzione della banconata da 500 milioni ha dovuto introdurre quella da 50 miliardi. Adesso nel paese africano usano valuta straniera per vendere ed acquistare merci. In questo senso Bernanke e amici non hanno grosse speranze di rimettere in moto l'inflazione. Se cercassero seriamente di farlo, genererebbero uno shock tale da provocare un arresto cardiaco all'intero sistema.

Penso che in futuro l'Inghilterra, assieme alla Spagna, entrerà nei libri di storia come l'esempio di un paese, in cui l'espansione economica negli anni 2000 è stata quasi esclusivamente basata su bolle speculative. Vi ritroviamo tutte le distorsioni dell'economia USA, solo su una scala più elevata. Anche la Gran Bretagna come gli Stati Uniti si è lanciata a capofitto sulla speculazione edilizia e come i cittadini statunitensi quelli britannici si sono indebitati fino alla punta dei capelli per consumare robaccia inutile - in effetti si sono indebitati in maniera ancora più marcata degli americani - mentre il sistema bancario impacchettava l'impacchettabile e si indebitava anch'esso fino al collo per investire in tutti quei settori che la bolla finanziaria globale stava inflazionando.

Il sistema bancario inglese ha finito con l'esporsi troppo. Quando si iniziano a vedere istituti con un leverage (rapporto tra il denaro a disposizione e l'esposizione complessiva) di 1:60, come nel caso della Barclays, dovrebbe apparire evidente che si è superato qualunque limite ragionevole. A paragone le banche americane messe peggio hanno dei leverage di circa 1:30. Non appena le varie bolle scoppiarono cominciò l'agonia delle banche Inglesi. L'azzerarsi della domanda per strumenti finanziari complessi, le terribili condizioni in cui versano hedge funds e private equity, hanno vaporizzato gran parte di quel mercato finanziario che era divenuto da anni la prima industria del paese.

Un sistema bancario esposto come quello Inglese non poteva sopravvivere autonomamente ad un evento del genere. A salvarlo è intervenuto lo stato nazionalizzando di fatto diversi istituti (la Royal Bank of Scotland ad esempio). La popolazione inoltre si è trovata costretta a smettere di consumare con soldi che non possedeva e ad aumentare il tasso di risparmio. Il risultato è stato una contrazione dell'economia e del denaro in circolazione. Per ovviare a questo, il governo ha promesso diversi interventi pubblici sotto forma di investimenti e tagli fiscali, come il calo dell'iva di due punti percentuale. Il risultato sarà uno spaventoso aumento del deficit pubblico nel prossimo futuro: si prevede un 6% del PIL nel 2009, ma molti temono che esso potrebbe presto raggiungere il 10% un livello da America Latina (o da Grecia). Lorenzo Bisi Smagni, responsabile degli affari internazionali alla BCE, afferma che il Regno Unito non sia materiale per l'euro a causa dell'alto deficit statale e dell'instabilità nel tasso di cambio della sterlina, il cui recente indebolimento viene considerato da molti una forma di "beggar thy neighour".

Francia e Germania rimangono a tutt'oggi i paesi principali dell'Europa. Le loro economie pur tra varie sofferenze saranno quelle che resisteranno meglio a questo periodo di crisi.

La Germania ha dalla sua conti relativamente in ordine, servizi efficienti e buoni ammortizzatori sociali, un industria di alto livello ed una bilancia commerciale all'attivo. Contro, ha l'enorme esposizione del suo settore bancario ed una grande dipendenza dal settore dell'export in un momento in cui la domanda mondiale è quasi azzerata.

La Deutsche Bank, ad esempio, pur non raggiungendo i livelli assurdi della Barclays è arrivata ad avere un leverage di 1:52. Come nel caso della banca inglese, il governo tedesco è intervenuto un paio di giorni fa, acquisendo la quota di maggioranza del colosso bancario, all'interno di una complessa operazione per la vendita di Postbank - di proprietà delle poste tedesche - alla Deutsche stessa. Senza l'intervento del governo l'operazione non avrebbe mai potuto essere completata.

L'esposizione totale della Deutsche è pari all'80% del PIL tedesco. Un suo fallimento non è neppure da prendere in considerazione. Se la Germania qualche giorno fa è arrivata a nazionalizzare la Commerzbank acquistandone un 25% più una azione e si specula sull'eventualità che lo stesso possa fare nei confronti della Hypo, il colosso finanziario (di dimensioni paragonabili all'ex Lehman) infognato completamente nel mercato immobiliare, è naturale che in caso di problemi futuri (e ci saranno) da parte della Deutsche il governo sarà obbligato ad intervenire ulteriormente.

I dati della produzione industriale tedeschi sono da bollettino di guerra. A Novembre il calo è stato del 7,7% rispetto alla stesso mese dell'anno precedente. Nel 2008 il PIL del paese è cresciuto dell'1,3% la metà rispetto al 2007 e le esportazioni sono aumentate del 3,9% contro il 7,5% sempre del 2007. L'ufficio di statistica tedesco stima che nell'ultimo quarto il calo del PIL sia stato tra l'1,5 e il 2%. Anche se i dati ufficiali saranno rilasciati solo il 13 Febbraio uno dei responsabili dell'ufficio ha detto: "la crescita economica nel 2008 è stata unicamente basata sulla domanda interna". Probabilmente un po' eccessiva come analisi, ma la dice lunga su quanto in fretta l'economia tedesca si stia raffreddando.

Joerg Kraemer capo economista alla Commerzbank ha affermato commentando le previsioni per l'ultimo quarto: " Questo significa che il punto di partenza per il 2009 è pessimo". "Ci aspettiamo che il PIL si contrarrà di un 2-3 percento nel 2009, il che rappresenterebbe il declino peggiore nella storia della Repubblica Federale". Esportazioni in calo e consumi interni stagnati nonostante un alto (per ora) livello di occupazione, stanno corrodendo la Germania. Per rispondere al problema il governo tedesco ha deciso di intervenire con un pacchetto di stimolo di 50 miliardi di euro.

Solita roba: sgravi fiscali, spese per infrastrutture (scuole, strade ecc), bonus per le famiglie. Il governo prevede di salvare in questo modo 250000 posti di lavoro.

La Francia dal canto suo, ha più volte invocato la collaborazione della Germania in vista di un piano di stimolo economico coordinato a livello Europeo ricevendo sempre una risposta negativa. I tedeschi non vogliono spendere il loro denaro per mantenere i "pigs". Temono, se lo facessero, di porre le basi per l'adozione in futuro di forme di debito comune, cosa che non è assolutamente nel loro interesse.

Anche la Francia sta attraversando un momento difficile. Il mercato del lusso una delle punte di diamante dell'economia Francese è in difficoltà: Channel ha licenziato l'1% della sua forza lavoro (poco, ma abbastanza da suscitare sgomento tra i commentatori francesi), Louis Vuitton ha annullato l'apertura a Tokyo di quello che dovevo essere il suo più grande negozio in assoluto e le vendite dello champagne sono calate del 16,5% ad Ottobre. La produzione industriale a Novembre è scesa del 2,4 rispetto al mese precedente a fronte di un calo atteso pari allo 0,8%. Il calo anno su anno è del 6,5%. Il maggior contributo al crollo della produzione industriale lo ha dato il settore dell'auto con un calo mensile dell'8,1% a Novembre dopo essere precipitato del 22,2% ad Ottobre. La situazione è abbastanza grave da spingere il presidente Sarkozy ad annunciare l'adozione di misure di assistenza finanziaria diretta da parte del governo all'intero settore. In cambio le industrie automobilistiche si dovrebbero impegnare a rafforzare la produzione sul territorio francese limitando la pratica della delocalizzazione. Si vocifera anche di prossimi aiuti statali all'Airbus. Il gigante dell'aviazione ha dichiarato di attendersi un dimezzamento degli ordini nel 2009 rispetto all'anno precedente.

Da questa veloce carrellata sulla situazione di alcuni dei principali paesi Europei dovrebbe risultare chiaro perché molti ritengano che l'Europa versi in condizioni peggiori degli Stati Uniti.

Si tratta di un entità senza una politica economica o monetaria comune. Anche se maggior parte dei paesi che la compone (16 attualmente) ricade sotto la protezione dell'euro altri 11 ne restano fuori. Sono principalmente i piccoli stati dell'est Europa a mantenere ancora una propria valuta e quasi tutti data la pessima congiuntura economica versano in gravi condizioni. Negli anni del boom gli investimenti sono accorsi attirati dagli alti tassi di crescita che essi potevano vantare. Quando la crisi è scoppiata i capitali sono fuggiti a gambe levate lasciandosi dietro aziende, stati e privati cittadini pesantemente indebitati in valuta internazionale: dollari, euro, franchi svizzeri e persino yen. Il risultato di questa fuga è stata lo svalutarsi delle monete locali che di conseguenza ha prodotto un aumento in termini reali dell'entità del debito.

La stabilità di questi paesi è importante per le nazioni dell'area euro dato che esse sono tra quelle che hanno maggiormente investito nella regione dell'Est Europa. Quindi per dritto o per rovescio li dovremo salvare in caso di necessità.

Un altro problema dell'Europa è il non poter emettere del debito comune. Ogni stato deve finanziarsi da se. Questo significa che ogni differenza nella stabilità delle varie economie viene riflessa dalla differenza nei rendimenti che ogni stato deve promettere di pagare sul proprio debito. In altri termini è molto più sicuro investire nel debito di in un economia "compatta" (pur con tutte le differenza tra i vari stati) come quella USA che non nella singola Italia o Inghilterra. In un momento a cui il mercato sembra comprensibilmente interessare solo la sicurezza, significa che gli stati visti come più pericolanti (Grecia, Irlanda ecc) potrebbero avere in futuro dei problemi a vendere il proprio debito.

Mentre stavo scrivendo questo post, Willem Buiter ha pubblicato un articolo che riflette bene alcune delle argomentazioni che avanzai in passato. Buiter afferma che sia assurdo, anche solo pensare che qualche paese dell'area euro possa decidere di abbandonare la moneta unica. L'effetto positivo che deriverebbe dalla svalutazione competitiva di una moneta locale si esaurirebbe velocemente, lasciando il paese in questione, in balia di un mercato governato da colossi alla cui politica economica esso si dovrebbe adeguare. Una moneta locale finirebbe presto per essere solo un peso. L'esempio dell'Islanda campeggia ancora nelle menti dei politici, come un monito imperituro sulle conseguenze che possono derivare dall'avere una moneta troppo debole ed insignificante a livello internazionale.

Nessun paese abbandonerà volontariamente l'euro. Qualunque cosa possano dire partiti politici come la lega. Se per qualche ragione l'Italia venisse cacciata dall'euro vedreste Bossi e compagnia recarsi strisciando a Bruxless e supplicare gli altri paesi di farci rientrare. Possono gridare quello che vogliono ai loro sostenitori a Pontida, tra un sorso dell'acqua del po' (spero la depurino prima) e una fetta di polenta, ma non sono certo stupidi. Sanno benissimo che abbandonare l'euro sarebbe un disastro per l'Italia.

Buiter si rallegra che ogni paese Europeo debba emetta un suo debito personale, una gioia che francamente non comprendo. Lo spread tra i rendimenti dei buoni del tesoro delle singole nazioni Europee sta aumentando continuamente. I buoni della Grecia promettono il 2,12% di rendimento in più rispetto a quelli tedeschi, un amento di 10 volte negli ultimi 2 anni. John Authers sul Financial Times, afferma che il mercato stia valutando la probabilità che uno dei paesi dell'eurozona abbandoni la moneta unica prima della fine dell'anno, al 30%. Buiter non si preoccupa della cosa. Dice che l'aumento dello spread sul debito sovrano costringerà i paesi in condizioni peggiori ad adottare forme più rigide di disciplina fiscale e che quindi avrà un effetto positivo.

Prevede che assisteremo, a dei default sul debito sovrano da parte di nazioni dentro ed al di fuori della zona euro, previsione con cui concordo, ma non si preoccupa di analizzarne le conseguenze. Cosa decideranno di fare gli altri paesi Europei di fronte al default di uno stato all'interno della moneta unica?

Un indicazione sulla strada che potrebbe intraprendere l'Europa in una simile eventualità, arriva dalla decisione da parte della BCE di allentare i requisiti sulle garanzie accettabili in cambio di prestiti. Il debito sovrano era eleggibile fino ad un rating di A-. Un altro abbassamento di rating avrebbe messo fuori gioco i buoni del tesoro Greci. La BCE ha quindi deciso in via transitoria (di questi tempi il transitorio ha il brutto vizio di diventare permanente) di accettare debito sovrano fino al rating BBB-, cioè fino al limite inferiore di quello che viene definito "investment grade" (livello da investimento).

Con tutta probabilità in caso di default su alcune tranche di debito pubblico, verrebbero semplicemente allentati i vincoli economici imposti dall'Unione e come ritiene Buiter il default verrebbe definito "ristrutturazione." In pratica l'Europa cercherà di nascondere la polvere sotto il tappeto finché sarà possibile. Ovviamente esiste un limite oltre al quale gli altri paesi non accetteranno di andare perché il costo di sobbarcarsi il sostegno dei paesi falliti diventerebbe eccessivo.

Questa crisi economica sarà la prova del 9 per la compattezza dell'Unione Europea. L'anno che è appena cominciato sarà il peggiore che essa abbia mai visto nella sua breve esistenza. La produzione industriale continuerà a calare. Fabbriche, aziende, piccole e medie imprese licenzieranno facendo aumentando il tasso di disoccupazione. Nel 2008 in Italia è stato al 6,7% e per il 2009 gli economisti prevedono che toccherà l'8,4%. Con tutta probabilità supereremo il 9% e ci avvicineremo alla doppia cifra. L'Irlanda e la Spagna sono già in doppia cifra. La Grecia è al 7,4%, ma la disoccupazione tra i giovani di età compresa tra i 15 ed i 24 anni è al 22%(molti affermano che il dato reale sia più vicino al 30%). Si è replicato in Grecia quel processo di impoverimento e precarizzazione delle generazioni giovani che ha investito gran parte del mondo industrializzato e sembra evidente che la Grecia non sappia come rispondere al tradimento di quella promessa implicita, di miglioramento delle condizioni di vita, che intercorrere tra le generazioni precedenti e quelle che seguono e alla conseguente ribellione dei cittadini giovani.

La miccia è stata innescata in Grecia, ma il fuoco della rivolta violenta rischia di attecchire in altri paesi. A fine anno la popolazione Islandese dette l'assalto, torce alla mano, alla sede del secondo canale televisivo dove il primo ministro, stava discutendo delle prospettive del paese per il 2009, tra uno stuzzichino e un bicchiere di champagne. Il genere di comportamento idiota che mi aspetterei da un politico italiano. Gli Islandesi sono una popolazione riservata e generalmente poco incline alla violenza. E' dovuto fallire lo stato perché si vedessero azioni simili. Per certi paesi Europei dubito che sarà necessario aspettare tanto.

I paesi dell'Est Europa rischieranno di nuovo il default (non si sono mai realmente ripresi) e verranno nuovamente salvati dall'Unione e dall'FMI, ma possiamo attenderci fortissime tensioni sociali. La Grecia se non arriverà a dichiarare default su alcune tranche del proprio debito, rischierà di andarci molto vicino. Prestate molta attenzione ai paesi dell'area mediterranea Spagna, Portogallo, Grecia perché il loro futuro è il nostro futuro, ma la loro caduta sarà più rapida della nostra. Nella prima metà dell'anno probabilmente non sorgeranno veri problemi di finanziamento sui buoni del tesoro, ma verso settembre/ottobre mi aspetto un fioccare di sofferenze. La risposta dell'Europa sarà come sempre contradittoria e poco tempestiva e si tradurrà probabilmente nella sostanziale sospensione (o allentamento se preferite) dei vincoli di stabilità.

La spinta deflazionaria proseguirà il suo corso. I consumi continueranno inevitabilmente a contrarsi man mano che l'economia peggiorerà, trascinando in basso i valori di quei beni che le passate bolle avevano inflazionato. Principalmente gli immobili sia residenziali che commerciali, ma anche le piccoli attività o quelle il cui business si basa su beni facili da tagliare come l'abbigliamento o la cosmesi subiranno un duro colpo. Caleranno meno le vendite nei discount, nei grandi supermercati, la grande distribuzione insomma. Subiranno meno l'impatto della crisi, almeno in Italia, gli oggetti elettronici del desiderio, come cellulari o lettori mp3 (nella prima metà dell'anno poi se ne riparla). Anche in questo settore però assisteremo ad un pesante compattamento. Qui a Bologna è la sagra della chiusura degli UniEuro (ci sarebbe in realtà molto da dire sul loro business plan). Per l'informatica sarà un anno nero e per il mercato automobilistico andrà anche peggio.

Gli interventi isolati dei vari stati potranno fare poco per cambiare questa realtà.

Di positivo, l'Europa rispetto agli USA ha (nella maggior parte degli stati) un indebitamento individuale minore, servizi che funzionano (i trasporti pubblici tanto per dirne uno) ed uno stato sociale collaudato, ma non basteranno a fare la differenza. Le entrate degli stati diminuiranno mentre aumenterà inevitabilmente il deficit. A seconda di quanto questa crisi durerà i dispositivi di welfare saranno in grado di offrire un cuscinetto oppure si riveleranno insufficienti. In Italia si sente ripetere un giorno si ed uno no, che i fondi per la cassa integrazione non bastano (e questo senza considerare l'adozione di rigide misure fiscali come suggerisce Buiter).

Per combattere la deflazione la BCE si arrederà e ricorrerà a esplicite misure di quantitative easing, oltre a tagliare ulteriormente il tasso di interesse. Aspettatevi un futuro indebolimento dell'euro, derivante sia dalla politica che adotterà la banca centrale sia dal degradarsi delle economie dei paesi membri. Anche la sterlina continuerà a svalutarsi. La Gran Bretagna sembra non cercare neppure di dissimulare le proprie intenzioni in questo senso.

Le banche del vecchio continente, tranne alcuni casi come quello Italiano, hanno dei livelli di leverage superiori a quello delle loro colleghe Statunitensi. Si trovano quindi fortemente esposte alle difficoltà che l'economia mondiale sta attraversando. Alcune hanno investito troppo nei paesi emergenti, altre si sbilanciante prima sulla bolla immobiliare e poi in quella delle materie prime ed altre ancora si sono esposte troppo su tutto. Non c'è modo che ne escano indenni. Continueranno a sputare sangue per tutto il 2009 e dato che farle fallire non sembra essere in discussione, verrano salvate a spese dei contribuenti.

Anche dai listini non giungeranno notizie particolarmente buone. In borsa, probabilmente, assisteremo alla replica di ciò che è avvenuto quest'anno. Se la borsa americana scenderà di un altro 40%, quelle Europee non se la caveranno meglio, mediamente la loro perdita sarà superiore.

Per concludere: se gli USA non rideranno quest'anno, l'Europa rischia invece di versare lacrime amare. Aspettatevi un incancrenirsi della situazione verso l'autunno e tenete attentamente d'occhio Spagna, Grecia, Irlanda e i paesi dell'Est. Saranno un ottimo barometro per capire cosa ci attenderà più avanti.

giovedì 8 gennaio 2009

L'anno del terrore (prima parte)

Il 2008 è finalmente terminato, lasciandosi alle spalle un cumulo di macerie finanziarie ed un numero crescente di cadaveri: diversi illustri personaggi non sopportando il peso del proprio fallimento economico, hanno scelto di farla finita togliendosi la vita (l'ultimo caso è quello dell'ex miliardario tedesco Adolf Merckle ).

Come ogni inizio d'anno due cose sono d'obbligo: i buoni propositi e le previsioni per l'anno appena cominciato.

Nel 2009 mi riprometto, oltre che cercare di arrivare vivo al 2010, di aggiornare il blog con maggiore regolarità. Negli ultimi tempi ho avuto difficoltà a farlo e sebbene sia per me irrealistico arrivare a scrivere un articolo al giorno, 3 alla settimana sono perfettamente alla mia portata.

Per quel che riguarda le previsioni invece, questo sarà ricordato come l'anno del terrore.

Il 2007 è stato l'anno della negazione. Quelli come me, che hanno assistito con orrore per anni alla scientifica costruzione della crisi attuale, quando nell'estate del 2007 videro i due fondi della Bear Sterns fallire e le banche che avevano prestato loro miliardi, dibattersi impotenti, non riuscendo a rivendere i cdo ricevuti come garanzia, capirono immediatamente che era finita. Il giocattolo attorno al quale l'economia di mezzo mondo aveva girato per 4 anni diventandone irreparabilmente dipendente, si era rotto.

I banchieri centrali e gli economisti mainstream impiegarono diverso tempo prima di rendersi pienamente conto di quanto fosse grave la situazione. Abbiamo passato mesi a sentire Bernanke, Paulson ed amici, ripetere frasi come: "non preoccupatevi, i problemi sono contenuti" , "la crisi dei subprime non infetterà il resto dell'economia". Peccato che la crisi non riguardasse semplicemente i subprime, ma coinvolgesse l'intero spettro della finanza. I subprime erano solo l'anello più debole e pertanto furono i primi a cedere. Tutto il resto seguì a breve distanza.

Il 2008 è stato l'anno del riconoscimento.

Un periodo durante il quale, perfino gli economisti più ottusamente ottimisti hanno dovuto rassegnarsi, riconoscere che una crisi esisteva e che essa coinvolgeva l'intera economia. Ad inizio 2008 gli analisti ancora vaneggiavano di una probabile ripresa del mercato nella seconda metà dell'anno. Poi arrivò il fallimento della Bear Sterns a smorzare gli entusiasmi e la nazionalizzazione della Fannie Mae e della Freddie Mac a gelare le aspettative. Il colpo di grazia fu inferto dal fallimento della Lehman. Il 10 Ottobre scorso ci ritrovammo letteralmente a qualche giorno di distanza dal collasso dell'intero sistema finanziario internazionale.

Il terrore avvolse i mercati. I banchieri centrali ed i governi intervennero arrivando progressivamente a farsi garanti dell'intero sistema finanziario. Gli stenti delle borse però, dovevano ancora riversarsi sull'economia reale. Il travaso è cominciato da appena qualche mese, ma già la paura si sta facendo strada mentre i settori industriale, quello pubblico e dei servizi entrano in sofferenza.

Il 2009 sarà l'anno del terrore.

Il pieno impatto della crisi colpirà l'economia reale. Le grandi aziende ridurranno drasticamente gli investimenti e licenzieranno personale, mentre un gran numero di piccole e medie aziende falliranno seguite a ruota dai grandi magazzini e dalle catene di distribuzione. Quella che per ora può essere classificata come una sensazione di paura serpeggiante si trasformerà in un ondata di puro terrore che avvolgerà gran parte della popolazione. Anche i soliti analisti che sperano in un accenno di ripresa nella seconda metà dell'anno (tanto per cambiare) dovranno arrendersi all'evidenza e rassegnarsi di fronte ad un fondo che sembrerà non arrivare mai.

Il 2010 con tutta probabilità sarà l'anno della rabbia.

Una rabbia partorita dal terrore e dalla sensazione di impotenza che dilagherà quest'anno. A seconda di come gli stati decideranno di gestire questa rabbia e la frustrazione della popolazione, il finale del 2010 potrà alternativamente offrire uno spiraglio di speranza o un biglietto di sola andata per un caos le cui ultime conseguenze, al momento, sono difficilmente prevedibili.

Non è il caso però, di spingersi troppo in là con la sfera di cristallo. Per ora mi limiterò a illustrare cosa potrebbe riservare il 2009 ai principali attori della scena economica internazionale, cominciando dal protagonista indiscusso.

Stati Uniti

Obama ha pre annunciato spese folli per il 2009. Il piano di intervento economico che il neo presidente varerà a breve è di puro stampo Keynesiano: prevede ingenti spese in infrastrutture, investimenti per lo sviluppo delle energie rinnovabili, aiuti economici ai singoli stati, sgravi fiscali di 500 dollari ad individuo e di 1000 dollari per famiglia. Il tutto per il modico importo di 775 miliardi di dollari, con l'esplicita speranza da parte della nuova amministrazione di arrivare a creare 3 milioni di posti di lavoro.

Nessuno sembra mettere in discussione la correttezza di questa linea di azione. Se la gente non è più in grado di indebitarsi per tenere in piedi la baracca che lo faccia lo stato, dicono gli economisti. Quasi tutti almeno. Uno dei pochi economisti mainstream che ha criticato apertamente la strategia di Obama è Willem Buiter. Ex membro della banca centrale inglese, attualmente docente alla London School of Economics, Buiter in un recente articolo ha detto che gli Stati Uniti non si possono più permettere certe spese e che dovrebbero andarci piano con i pacchetti di stimolo finanziati a suon di debito.

Buiter prevede che il deficit USA nel 2009 e nel 2010 si avvicinerà ai 2 trilioni di dollari (l'anno) ed afferma che quella che può apparire come l'unica soluzione nel breve termine, potrebbe avere conseguenze terribili nel lungo termine. Con lungo intende un massimo di 5 anni, il limite di tempo entro il quale Buiter prevede che quegli stati che storicamente hanno sempre sostenuto l'America comprandone il debito, si daranno alla macchia scaricando asset denominati in dollari sul mercato.

Buiter descrive la linea di pensiero che sembra imperare dicendo:

Molti cattivi consigli riguardo la politica da adottare derivano dalla non comprensione dell'impatto a breve termine e lungo termine degli eventi e delle scelte politiche. Troppo spesso ho sentito varianti della seguente questa frase: "Il lungo termine è solo una sequenza di brevi termini, quindi se ci assicuriamo che le cose abbiano sempre senso nel breve termine, il lungo termine si occuperà da solo di se stesso". Questa fallacia, che io, ingiustamente, etichetterò come fallacia Keynesiana, combina tre errori.

Buiter si lancia poi ad illustrare i tre errori in questione. Il primo dovrebbe essere ovvio. Non abbiamo nessuna prova che sistemando le cose a breve termine anche il lungo termine si sistemi. Anzi, è quasi dimostrabile il contrario (se per sistemare le cose a breve termine si intende: "indebitarsi fino alla radice dei capelli", nel lungo termine arriverà il momento in cui questo debito dovrà essere ripagato con gli interessi). Il secondo errore è l'incapacità dei modelli economici esistenti, a cui politici ed economisti si affidano, di prevedere con accuratezza le conseguenze future che gli interventi attuali potrebbero produrre. Il terzo problema nasce dal fatto che molti dei soggetti che operano ed investono sul mercato lo fanno in base a personali valutazioni sul futuro andamento del mercato stesso. Per essi il lungo termine è ora e chi ha il compito di decidere della politica economica di interi paesi dovrebbe tenerne conto.

I giapponesi più di dieci anni fa, percorsero la stessa strada che gli USA sembrano intenzionati ad imboccare, senza ricavarne particolari benefici. Il governo giapponese riempì il paese di cattedrali nel deserto, cementando il cementabile, mentre contemporaneamente la banca centrale abbassava il tasso di interesse a zero e si lanciava in misure di quantitative easing. Non servì a nulla. Il paese del Sol Levante si trovò impantanato in una deflazione decennale con l'aggravante di trasformarsi, nel giro di pochi anni, da uno degli stati creditori per eccellenza in uno degli stati con il più elevato rapporto debito/pil al mondo (quasi il 180%).

Un articolo del Wall Street Journal riassume per tappe gli infruttuosi tentativi giapponesi di rimettere in moto un economia dal motore rotto, durante tutti gli anni 90. Chiunque provasse a mostrare agli economisti mainstream il caso giapponese come dimostrazione della natura fallimentare di un certo tipo di interventi si sentirebbe rispondere: "I giapponesi non sono intervenuti tempestivamente e quando finalmente si sono decisi non lo hanno fatto in maniera sufficientemente massiccia". Non fu quindi la medicina ad essere sbagliata, bensì la dose somministrata. Un argomentazione che non mai trovato convincente.

Ciò che salvò il paese del Sol Levante da un destino ben peggiore fu l'alto tasso di risparmio dei suoi cittadini che permise a questi ultimi di continuare a mantenere un livello accettabile di consumi. Gli USA purtroppo, non hanno la stessa fortuna. I cittadini americani sono in mutande è si vedono costretti a limitare le proprie spese. L'emblema di questa situazione è rappresentato dal mercato dell'auto uno dei settori maggiormente colpiti dal calo dei consumi.

Il filmato qua sotto anche se non comprendete l'inglese, mostra brutalmente quanto sia aumentato l'invenduto nel settore automobilistico. Si parla di mercedes, bmw e toyota. Auto di fascia alta o tecnologicamente all'avanguardia.



Non potendo contare sui risparmi interni da parte dello stato o dei privati e neppure su una bilancia commerciale in attivo a chi si rivolgeranno gli USA alla ricerca di denaro?

Lo spiega Brad Setser in un recente articolo: gli Stati Uniti per finanziare i propri interventi dovranno rivolgersi alle banche centrali degli altri paesi, in particolare quella cinese, quella giapponese e quelle degli stati del golfo.

Vi chiederete dove sia la novità.

La novità sta nella conclusione a cui giunge Setser dopo aver analizzato l'andamento dei capitali in entrata ed in uscita dagli USA. Nel grafico sotto si può notare che essi hanno un andamento pressoché identico.


Dice Setser:

Notate come i totali dei flussi in entrata ed in uscita si muovano insieme nel grafico - a parte le entrate che furono attratte dagli alti tassi di interesse USA negli anni ottanta e nel periodo di fine anni novanta quando gli investitori esteri si accalcavano per comprare azioni americane. La maggior parte dell'aumento del flusso totale riflette un aumento dei flussi a breve termine ed i flussi bancari a breve termine tra diverse nazioni, spesso sembrano compensarsi tra loro. O per metterla in altro modo, il deficit USA non è stato finanziato tramite indebitamento a breve termine nei confronti delle banche private del mondo.

Immaginate il processo in questo maniera. Supponete che una banca USA presti un miliardo di dollari ad una banca londinese e che questa presti a sua volta quel denaro ad un Hedge Fund domiciliato nei Caraibi il quale lo usi infine per acquistare un miliardo in securities americane. Questa catena comporta un flusso in uscita e uno in entrata, ma quello in uscita ha finanziato quello in entrata - esso non contribuisce a finanziare il deficit corrente. Come contrasto, l'acquisto da parte della Cina di securities del Tesoro (buoni del tesoro ndr) o delle Agenzie (titoli delle GSEs ndr) riflettono in gran parte il surplus finanziario cinese - non si tratta di banche cinesi che si indebitano con banche americane. Questo certamente aiuta a finanziare il debito corrente USA.

Setser conclude la sua analisi (che vi consiglio di leggere interamente) dicendo:

Le banche centrali sono state per tutto il tempo, la principale fonte di finanziamento per il deficit USA. Mettendo da parte il Giappone, le nazioni con grandi surplus finanziari stavano costruendo le proprie riserve ufficiali ed i propri fondi sovrani - ed entrambi sono stati il vettore chiave nel fornire finanziamenti alle nazioni con dei deficit.

E quando la domanda (netta) da parte dei privati per assets USA è crollata essa è stata rimpiazzata da quella delle entità ufficiali (banche centrali ndr).

In sostanza il finanziamento che le banche centrali del mondo concedono agli USA acquistando buoni del tesoro non sarebbe semplicemente fondamentale. Sarebbe TUTTO.

Questo rende qualsiasi previsione sul futuro imprescindibilmente dipendente da considerazioni di natura politica. Fino a quando Cina, Giappone e stati del Golfo decideranno di continuare a sostenere gli Stati Uniti la baracca starà in piedi. Se anche uno dei maggiori finanziatori del deficit USA dovesse dileguarsi non esisterebbe nessun capitale privato in grado di prenderne il posto.

Giappone e stati del Golfo sono legati con il cordone ombelicale alle sorti degli Stati Uniti e difficilmente cambieranno la propria politica economica. Per la Cina si tratta invece di un matrimonio di puro interesse. Non appena le si dovesse presentare un occasione vantaggiosa per dileguarsi lo farà.

La Cina e gli Stati Uniti, sono i due paesi che reggono tra le mani il destino dell'intera economia mondiale.

Il titolo di un intervista a Gao Xiqing, un signore che gestisce 200 dei 2000 miliardi di dollari in mano al governo cinese sintetizza bene la posizione cinese: "Siate carini con i paesi che vi hanno prestato denaro". Gao racconta come i cittadini cinesi odino il fatto che il loro governo investa un enorme quantità di denaro in securities ed asset statunitensi invece di utilizzarlo internamente a beneficio della popolazione.

Dice Gao:

Ma penso che in definitiva, il governo americano debba parlare con la gente e dire: "Perché non ci riuniamo insieme e non ragioniamo sulla situazione? Se la Cina ha 2 trilioni, il Giappone ha quasi 2 trilioni, e la Russia ne ha diverse (riserve monetarie ndr), e tutti gli altri, poi - gettiamo via le differenze ideologiche e pensiamo a cosa sia meglio per tutti quanti." Possiamo riunire insieme tutte le persone rilevanti e pensare a un sistema, quello che la gente chiama una seconda Bretton Woods che faccia quello fece la prima Bretton Woods.

Sono sempre stato scettico sull'eventualità di una seconda Bretton Woods. A chi invoca un evento del genere mi sembra sfugga il contesto in cui gli accordi di Bretton Woods furono siglati. La seconda guerra mondiale stava terminando. L'Europa era un cumulo di macerie. La vecchia potenza imperiale, l'Inghilterra, pur non avendo perso la sua rilevanza non poteva vantare alcun primato e si ritrovava con una sfera di influenza ridotta all'osso. Gli Stati Uniti invece uscivano dal conflitto come la nuova super potenza, sia dal punto di vista militare che economico. Questo realtà non era in discussione e non era contrattabile, come dimostrò il fatto che tra i due piani presentati a Bretton Woods: quello inglese di Keynes teso ad avvantaggiare le nazioni debitrici e quello di Barry White che avvantaggiava principalmente gli USA, allora il maggiore creditore mondiale, venne "imposto" quest'ultimo.

Oggi è tutto più torbido e confuso. Gli USA non sono ancora ridotti così male da dovere accettare di scendere a patti sottoscrivendo pesanti concessioni, tra cui la più ovvia, sarebbe l'istituzione di un paniere di valute di riferimento mondiale, togliendo al dollaro la sua posizione di privilegio. Ne d'altra parte, la Cina può vantare quella posizione di impareggiabile potenza nella quale si ritrovarono gli USA nel 1944. Pur essendo essa il maggiore creditore mondiale, si trova a dipendere eccessivamente dalle esportazioni in un momento in cui la domanda mondiale di merci si sta azzerando.

Una seconda e credibile Bretton Woods si potrà verificare solo quando i maggiori paesi del mondo si ritroveranno con le spalle al muro o in seguito ad un evento traumatico (una guerra mondiale ad esempio). Ora è ancora presto.

Anche quest'anno, ritengo che la Cina continuerà a sostenere le spese degli USA acquistandone costantemente il debito. Contemporaneamente sperimenterà soluzioni alternative per sfuggire alla crisi, come la creazione di un area di scambio asiatico e cercherà diplomaticamente di contenere gli interventi economici di Obama (dato che non si traducono in maggiore domanda per merci cinesi).

Gli USA riusciranno quindi a finanziare il proprio deficit nel 2009. Il pacchetto di stimolo economico da quasi 800 miliardi di dollari non otterrà però i risultati sperati. L'economia Statunitense continuerà a deteriorarsi. Il mercato immobiliare commerciale crollerà replicando l'andamento tenuto nell'ultimo anno da quello residenziale. Anche la condizione di quest'ultimo continueranno ad aggravarsi, arriverà l'ondata di reset tra gli option arms (mutui esotici) portandone alle stelle le rate mensili.

I consumi non si riprenderanno. La gente aumenterà il proprio tasso di risparmio e continuerà a diminuire le spese. Anche quelli che potrebbero ottenere del credito dopo aver assistito alle conseguenze a cui può portare un eccessivo indebitamento saranno molto prudenti nelle loro scelte finanziarie. Continuerà quel processo di modifica generazionale nell'attitudine con cui la gente si avvicina al consumo/risparmio. Un cambiamento che rimarrà con noi a lungo. Le manovre della FED per iniettare liquidità nel sistema falliranno miseramente. Questo perché ancora una volta il problema non è di liquidità, ma di insolvenza. Insolvenza sia a livello di sistema finanziario sia a livello individuale, causata dal peso dell'indebitamento. La FED sta combattendo la battaglia sbagliata.

Assisteremo ad un aumento spaventoso dei default nel mercato dei corporate bond, pur offrendo dei rendimenti stellari pochissimi correranno il rischio di acquistarli. Delle tre grandi case automobilistiche americane ne rimarrà con tutta probabilità una sola. Il tasso di disoccupazione salirà fino a raggiungere la doppia cifra. Si moltiplicheranno le richieste per la creazione di barriere commerciali nei confronti dei grandi paesi esportatori e le proteste nei confronti dell'outsourcing, della delocalizzazione e dell'ingresso di stranieri nel territorio americano grazie a permessi di lavoro. Il PIL USA continuerà a calare per l'intero anno.

La borsa dopo una breve cavalcata al rialzo nei primi mesi dell'anno precipiterà nell'abisso. Nuovi sostegni degli indici verranno testati e via, via infranti. La volatilità regnerà sovrana e da più parti verranno invocati interventi diretti del governo a sostegno dei listini. A fine anno lo S&P e il Dow potrebbero tranquillamente arrivare a valere un 40- 50% in meno rispetto al valore odierno. Gli Hedge Fund continueranno a percorrere la strada del suicidio collettivo impedendo ai loro partecipanti di ritirare il denaro investito. I fondi che il prossimo dicembre potranno vantare risultati positivi si conteranno sulle dita della mani (addirittura quelli ancora in circolazione potrebbero finire col contarsi sulle dita di una mano).

Diversi stati e città rischieranno la bancarotta. Il Center on Budget and Policy Priorities ha illustrato in un suo rapporto come 44 degli stati americani abbiano seri problemi di finanziamento. Essi chiuderanno l'anno fiscale del 2009 (si chiude il primo luglio del 2009) con un pesante deficit, defict che si trascinerà aggravandosi nel 2010-2011, arrivando a superare i 350 miliardi di dollari complessivi. L'emblema di questa situazione rimane la California che nel disperato tentativo di ridurre il proprio deficit, oltre a studiare il taglio di vari servizi, a forzare i dipendenti statali a stare a casa alcuni giorni al mese (non retribuiti ovviamente), a pensare di diminuire di 5 i giorni di scuola (per risparmiare 1,1 miliardi di dollari) sta valutando la possibilità di pagare i rimborsi fiscali con delle cambiali.

Alla fine, come sempre, dovrà intervenire il governo federale a salvare i singoli stati.

Prestate però molta attenzione a quel che accade in California, perché secondo il mio modesto parere, quel che sta succedendo in quello stato che per inciso è anche quello che maggiormente contribuisce al PIL USA, ci fornirà una visione sul futuro che attende gli Stati Uniti nel loro complesso.

Il dollaro nel 2009 probabilmente non crollerà. Nonostante la disastrosa situazione americana, il resto del mondo non è certamente in migliore salute. Negli ultimi anni le economie degli altri grandi paesi sono andate tutte sbilanciandosi in un determinato settore: chi nell'export di prodotti industriali come Cina e Giappone, chi in quello della materie prime come Russia e numerosi paesi emergenti e chi come l'Inghilterra nel settore finanziario. Tutte dipendevano dai continui consumi dei cittadini USA che si trattasse di consumi di beni o di credito e tutte attraverseranno un anno terribile.

Sul mercato valutario quindi, penso che il dollaro e lo yen resisteranno, mentre la sterlina e l'euro caleranno ulteriormente.

In definitiva, anche se un qualche equilibrio tra i diversi attori della scena economica mondiale verrà mantenuto, si tratterà di un equilibrio precario dettato dalla paura e dall'incertezza. Un "equilibrio del terrore" se così vogliamo dire. Di questo terrore si avvantaggeranno ancora una volta gli Stati Uniti, sebbene anch'essi vadano incontro ad anno terribile.

PS:
Nei prossimi articoli proverò a fare qualche previsione per i paesi del BRIC (Brasile,Russia,India,Cina), per l'Europa e per l'Asia.