Il PIL di un stato può essere definito in diversi modi equivalenti tra loro. Sulla relativa pagina della Wikipedia esso viene descritto come:
- la produzione totale di beni e servizi dell'economia, diminuita dei consumi intermedi ed aumentata delle imposte nette sui prodotti (aggiunte in quanto componenti del prezzo finale pagato dagli acquirenti);
- la somma dei redditi dei lavoratori e dei profitti delle imprese; nell'attività produttiva si sopportano, infatti, costi per l'acquisto di beni e servizi da consumare o trasformare (i consumi intermedi) e costi per la remunerazione dei fattori produttivi lavoro e capitale; la produzione al netto dei consumi intermedi coincide quindi con la somma delle retribuzioni dei fattori.
Più schematicamente, il valore del PIL viene ricavato sommando tra loro quattro fattori: il consumo privato, gli investimenti lordi, la spesa pubblica e la differenza tra esportazioni ed importazioni.
Nel suo articolo, Brock definisce gli elementi che influenzano la variazione del PIL in una maniera semplice ed intuitiva. Essi sono: la variazione dell'occupazione e la variazione della produttività. In altri termini, il PIL dipende strettamente da quanta gente lavora complessivamente all'interno di uno stato e da quanto, ogni individuo è in grado di produrre.
Questo legame, tra PIL, occupazione e produttività è noto da tempo.Tanto per fare un esempio, il governo australiano nell'IGR (Inter-Generational Report) - un rapporto che cerca di prevedere la traiettoria del PIL e dell'economia sul lungo periodo - tiene conto per i propri calcoli di cinque variabili chiave:
- Il livello della popolazione con più di 15 anni (la popolazione attiva)
- Il tasso di partecipazione (quanta gente lavora o cerca attivamente lavoro, rispetto al totale della popolazione attiva)
- Il tasso di occupazione
- La media delle ore lavorate
- La produttività
Nella prima parte di questo articolo misi in evidenza come sia indispensabile aumentare il PIL dell'Italia per poter efficacemente diminuire il rapporto tra il debito pubblico ed il PIL stesso. Agire solo sul lato dell'indebitamento si rivela alla lunga una strategia castrante, destinata a fallire.
Dalle considerazioni di Brock risulta chiaro come siano due le strade che vanno percorse in questo senso: una che possa portare ad un aumento della produttività ed un'altra in grado di condurre ad un incremento dell'occupazione.
La tabella sotto, presa dal World Economic Outlook dell'FMI, riporta l'andamento della produttività, del costo del lavoro per unità prodotta e dei guadagni orari nei principali paesi ad economia avanzata.
Per quel che concerne il livello di retribuzione oraria, il dato italiano mostra, negli ultimi anni, un aumento più marcato rispetto a quello tedesco. Si tratta però, di un incremento che rimane tutto sommato aderente ai valori medi calcolati dall'FMI. Niente di drammatico insomma. La vera voragine ci si para d'innanzi quando si confronta il costo del lavoro per unità prodotta italiano con quello tedesco: se esso nel 2005 saliva in Italia del 2,2%, in Germania scendeva del 3,1%. Nel 2006 in Italia, esso cresceva del 4% in Germania invece calava del 4,2%. E così via.
In soldoni, da parecchi anni a questa parte, gli stipendi in Italia sono aumentati più velocemente di quando non sia aumentata la produttività e ciò si è riflesso sul costo del lavoro per unità prodotta, facendolo salire in maniera eccessiva. Per ovviare a questo problema, si potrebbe agire dal lato delle retribuzioni riducendole. In un caso simile sarebbe forse più corretto parlare di un aumento dell'efficienza del sistema più che di produttività, dove con efficienza si intende la differenza tra i costi in ingresso e il valore in uscita delle merci. Si tratterebbe probabilmente della soluzione più semplice, ma come ho scritto sopra, la variazione delle retribuzioni non si discosta in maniera significativa dai valori medi dell'FMI. Su di esse bisogna intervenire, ma in maniera limitata (riprenderò il discorso più avanti).
Il versante su cui operare veramente è un altro: la produttività.
Il metodo classico per conseguire un aumento della produttività è attraverso l'innovazione tecnologica. Un miglioramento della tecnologia a disposizione delle aziende consente loro di migliorare gli automatismi, quindi di ridurre la quota di lavoro umano aumentando al contempo la produzione. Inoltre, visto l'alto costo delle tecnologie d'avanguardia, l'innovazione contribuisce in maniera significativa al PIL di un paese attraverso le esportazioni. Diversi studi poi, dimostrerebbero come un ambiente di lavoro confortevole - sedie ergonomiche, climatizzazione degli ambienti ecc - possa aumentare la produttività dei lavoratori in maniera significativa.
Se l'innovazione tecnologica si rivela un elemento così fondamentale, il fatto di sentir sempre ripetere in televisione "la ricerca! dove è finita la ricerca?", non è un buon segnale. L'Italia è un paese che investe pochissimo in ricerca tecnologica. Sia lo stato che - ancora peggio - le aziende private. Siamo un paese che in seguito all'abbandono della lira e all'introduzione dell'euro, ha perso il controllo sulla propria moneta e la possibilità di ricorrere alla svalutazione competitiva. In altri termini, come nazione avremmo dovuto puntare da tempo sulla produzione di beni ad alto contenuto tecnologico, con elevato valore aggiunto e difficilmente replicabili dai paesi emergenti.
Invece ci siamo concentrati su produzioni di basso livello o di livello intermedio mettendoci in competizione con giganti come la Cina. Abbiamo una miriade di piccole e medie imprese che non hanno le dimensioni e le risorse necessarie ad investire in ricerca tecnologica e una classe imprenditoriale che troppo spesso si è rivelata miope ed incolta.
Si tratta di questioni di cui si è sentito spesso dibattere in tv anche se in maniera superficiale.
Brock nel suo articolo avanza alcuni suggerimenti, riferiti al caso USA, su come intervenire per aumentare la produttività:
- Investimenti statali in infrastrutture in particolar modo sul versante energetico
- Stimolare l'innovazione tecnologica e il capitalismo di ventura
- Sostenere l'educazione e l'elitismo
- Imporre un sistema fiscale che premi l'innovazione ed il successo
- Incentivare gli investimenti nel settore privato
- Ridurre la burocrazia
Ho scritto diverse volte cosa penso della spesa in infrastrutture, specialmente nel mezzo di una crisi come quella attuale. Brock giustifica il tutto tirando in ballo il moltiplicatore Keynesiano. Si tratta di un concetto introdotto nel 1931 da Richard F. Khan, secondo il quale un aumento della spesa pubblica produce come effetto un incremento dei consumi che è un multiplo della spesa iniziale. Purtroppo, come ha scritto André Lara Resende, un economista Brasiliano in un recente articolo, è noto da tempo che in una situazione come quella odierna, in cui il tasso di indebitamento della popolazione risulta estremamente elevato, il moltiplicatore Keynesiano non funzioni.
La gente invece di spendere il denaro che gli capita tra le mani lo mette da parte sotto forma di risparmio o lo usa per pagare i propri debiti annullando gli effetti moltiplicativi. Al di là delle considerazioni di Resende è lo stesso concetto di moltiplicatore Keynesiano ad essere da tempo messo in discussione. In questo articolo pubblicato su Forbes vengono presentate alcune delle posizioni classiche sulla diatriba, facendo riferimento al caso degli interventi di stimolo economico operati dal governo USA.
Nel caso italiano non è neppure necessario scomodare Keynes. Brock invoca opere pubbliche che a fronte di un investimento odierno possano portare un giovamento futuro all'economia sotto forma di servizi migliori che facciano risparmiare tempo ed energia andando a migliorare quindi l'efficienza dell'intero sistema. In Italia molte delle opere pubbliche si sono storicamente rivelate delle cattedrali nel deserto. Un inutile spesa che ha creato poco lavoro, nessun valore duraturo ed è andata ad incidere pesantemente sul bilancio statale (qui potete leggere un recente articolo sulla questione).
Non significa che in Italia non vada mai fatta nessuna opera pubblica. Semplicemente in una situazione come quella odierna, potrebbe rivelarsi controproducente spendere in infrastrutture aumentando il Deficit statale, con il rischio di non ricavarne nessun reale vantaggio futuro e minimi vantaggi attuali.
Gli altri punti indicati da Brock li trovo tutti condivisibili e possono essere riassunti con: "incentiviamo l'innovazione".
Premiare il merito, sostenere l'educazione, favorire gli investimenti privati, ridurre la burocrazia e rimodulare l'imposizione fiscale sono tutti interventi che dovrebbero contribuire a fare emergere i migliori, i più colti, indirizzandoli verso la ricerca tecnologica e liberando loro la strada da barriere burocratiche e inutili balzelli fiscali.
L'elitismo è un dato di fatto in ogni società organizzata. Si dice che valga la regola del 80/20 - quello che viene anche chiamato il principio di Pareto dal nome dell'economista italiano (Vilfredo Pareto) che per primo lo formalizzò nel 1848. Secondo Pareto, in ogni società un 20% della popolazione arriva naturalmente a costituire un elite. Questo indipendentemente dal tipo di organizzazione che la società stessa si è data (fascismo, comunismo ecc). Il punto semmai è come questa elite venga selezionata. Se emerge grazie a dei meriti personali e alla manifestazione di indubbie capacità essa costituisce un prezioso asset per la comunità, fermo restando che far parte dell'elite o se vogliamo chiamarla in un altro modo, della "classe dirigente", non può comportare l'essere al di sopra della leggi e delle regole che valgono per il restante 80% della popolazione.
Da questo punto di vista l'Italia è un disastro. Il fatto che esista un fenomeno definito "fuga di cervelli" la dice lunga. Formiamo gente capace nelle più disparate discipline scientifiche, investendo tempo e denaro per poi farle scappare via, spesso controvoglia, verso paesi in cui le loro competenze possano venire sfruttate pienamente.
A ciò si aggiunge un imposizione fiscale che non incentiva le aziende nuove e di dimensioni ridotte, fondate spesso da giovani, ad investire in ricerca. Se siamo pieni di piccole e medie aziende potremmo almeno cercare di incentivare la loro crescita e il loro sviluppo tecnologico. Spesso mi trovo ad affermare: "google non sarebbe mai potuto nascere in Italia". Troppi ostacoli, burocrazia, tasse.
Le strategie che propone Brock per favorire un aumento dell'occupazione sono 5:
- Forte crescita del PIL
- Composizione del Deficit
- Deregolamentazione del mercato del lavoro
- Gestione del cambio demografico all'interno del mercato del lavoro
- Politica fiscale
I primi due punti sono una semplice ripetizione di quanto già esposto. Brock afferma che applicare le sue indicazioni sull'aumento della produttività incrementerebbe il PIL e quindi condurrebbe ad una conseguente crescita dell'occupazione dato lo stretto legame tra quest'ultima ed il Prodotto interno lordo di una nazione. Allo stesso tempo rimarca l'importanza di un incremento del deficit tramite la spesa pubblica in infrastrutture per aumentare l'occupazione, argomentazione su cui mi sono già espresso.
Nell'ultimo punto Brock si concentra sulla politica fiscale USA consigliando una riduzione della tassazione sul lavoro e l'introduzione dell'IVA (che non esiste od è minima in gran parte del territorio USA), una forma di tassazione che produrrebbe minori distorsioni sull'efficienza di un economia. Per quel che riguarda l'Italia possiamo vantare un'IVA molto elevata - del 20% per la maggior parte delle merci - ed il più alto carico fiscale sul lavoro di tutta l'Unione Europea. Un altro tormentone dei politici e degli economisti è sempre stata la riduzione della tassazione sul lavoro.
I punti fondamentali suggeriti da Brock sono il terzo ed il quarto. In particolare sul terzo, quello della deregolamentazione del mercato del lavoro è stato fatto un disastro in Italia dalla metà degli anni 90 in avanti.
In un recente documento che potete trovare sul sito dell'FMI, Martin Schindler, compie un impietosa analisi del mercato del lavoro Italiano. Schindler mette in luce quelli che dovrebbero essere i punti fermi di ogni riforma degna di questo nome. Innanzi tutto andrebbero evitate come la peste le riforme abbozzate. Ogni vantaggio che esse possono portare sul breve termine si trasforma alla lunga in un instabilità che pesa sull'intero sistema. In secondo luogo, ad essere fondamentale è l'ordine con cui le riforme vengono attuate più che le riforme in se stesse.
Due punti centrali che ho sempre sollevato quando mi sono trovato ad affrontare l'argomento "mercato del lavoro". A chi mi chiedeva se fossi d'accordo sull'abolizione dell'articolo 18 ho sempre risposto in maniera affermativa, aggiungendo però che se si trattasse di eliminarlo domani mi sarei detto contrario.
Prima vanno compiute altre riforme.
La riforma Treu del 1997 e quella Maroni del 2003, che hanno introdotto e poi modificato ciò che viene definito "flessibilità", hanno avuto un impatto positivo sull'occupazione facendola crescere progressivamente dal 1995 in avanti. Il grafico sotto, basato sui dati dell'OCSE, mostra chiaramente questo andamento:
Questo calo della disoccupazione potrebbe essere considerato un dato positivo se non vi fossero di mezzo tutta una serie di problemi. Il primo ancora una volta è quello alla produttività. Nell'immagine sotto potete vedere in forma grafica cosa abbia fatto la produttività in Italia rispetto ai maggiori paesi industrializzati nel periodo 1995-2006:
L'Italia insomma, come scrissi in precedenza ha puntato sull'efficienza più che sulla produttività. La flessibilità incrementa l'efficienza del sistema dando alle aziende la capacità di regolare le proprie necessità di manodopera in maniera dinamica a seconda dell'andamento del mercato. Uno strumento senz'altro comodo per le aziende, ma una crescita della produttività avrebbe bisogno di personale stabile, dall'elevata preparazione, individui quasi indispensabili (termine che farebbe inorridire molti economisti) che possano lavorare in un ambiente accogliente e con strumenti adeguati.
Invece ci siamo ritrovati con eserciti di persone costrette ad tirare avanti con contratti precari, stipendi bassi ed una grande incertezza riguardo il proprio futuro. Il 50% dei disoccupati italiani impiega più di un anno prima di trovare una nuova occupazione. Come si può vedere nell'immagine sotto siamo ai primi posti in Europa su questo versante:
Il mercato del lavoro Italiano è piagato da profonde assimetrie.
Il primo versante su cui intervenire dovrebbe essere quello del mercato dei prodotti riducendo il carico di regolamentazioni di cui è gravato. Si parla dell'insieme di pastoie burocratiche che pesano sulle aziende, sui professionisti, che operano come barriera di entrata nei confronti dei soggetti che si affacciano per la prima volta sul mercato e così via. L'OCSE ha sviluppato un indicatore in questo senso che chiama PMR (product market regulation). Per capire meglio cosa si intende quando si parla di mercato dei prodotti riporto sotto il diagramma che riassume le diverse voci usate dall'OCSE per calcolare il PMR:
Può sembrare discutibile consigliare una riforma che sul breve termine vada a peggiorare la situazione sul versante occupazionale e retributivo proprio nel mezzo di una crisi come quella attuale. Si tratta però, di uno di quei cambiamenti strutturali i cui benefici si farebbero sentire in maniera permanente ed investirebbero l'intero spettro economico.
Si dice che andrebbero liberate le energie giovani che il paese ha a disposizione. Il problema è che queste energie non trovano un via di sfogo: le grandi aziende trovandosi spesso in regimi di concorrenza limitata, ritengono di frequente più conveniente spendere denaro per ingraziarsi questo o quel politico in vista di possibili commesse ed appalti governativi piuttosto che investirlo per "liberare le energie giovani" confrontandosi su tecnologia e sviluppo. Per i giovani d'altro canto risulta costoso e burocraticamente complicato mettere in piedi una nuova azienda e anche nel caso ci riescano si trovano di frequente a dover fronteggiare ad armi impari una concorrenza che in molti casi può contare su "appoggi" che nulla hanno a che vedere con un libero mercato.
Mi rendo che può sembrare un eccessiva semplificazione della situazione, ma si tratta di problemi realmente esistenti che incidono pesantemente sulla produttività della nazione e sul suo sviluppo futuro. Recentemente il New York Times ha definito l'Italia come un "sistema feudale estremamente avanzato".
La parte più competente delle giovani generazioni trova da un lato un percorso che troppo spesso conduce ad una precarietà di durata indefinita e dall'altro ad una serie di porte sbarrate e grandi difficoltà nell'iniziare un attività da zero, specie se legata al campo della ricerca e della tecnologia. Non sorprende certo che nascano fenomeni come la "fuga di cervelli". In altri paesi si fa di tutto per incentivare l'immigrazione di individui preparati specie in campo tecnologico. In Italia avviene il contrario: sembra che si cerchi in ogni modo di incentivarne l'emigrazione. Un atteggiamento folle.
Un paese che non investe sui giovani e sul futuro è un paese che non avrà un futuro.
Ritengo quindi un imperativo intervenire sul lato della regolamentazione del mercato dei prodotti, incentivando competizione e merito. Bizzarramente su questo versante ha fatto più la sinistra coi vari governi Prodi (si può poi discutere sul modo) che non un Berlusconi che a parole aveva fatto della riduzione delle pastoie burocratiche e di certe liberalizzazioni un suo cavallo di battaglia.
Un mercato con più concorrenza, maggiore vitalità che sia più agile e flessibile ha anche necessità di una forza lavoro altrettanto flessibile. Aver reso i lavoratori flessibili all'interno di un mercato rigido ha creato dei vantaggi marginali, generando al contempo un instabilità sociale che non ha influito positivamente sulla produttività. Questo è un esempio di quanto sia importante l'ordine con cui vengono eseguite le riforme.
La seconda cosa da fare dopo aver agito sul PMR dovrebbe essere estendere a tutti i lavoratori un sistema di protezione sociale. Si tratta di un intervento necessario su una delle più gravi assimetrie del mercato del lavoro italiano. Alcuni lavoratori hanno garanzie e protezioni mentre un altro nutrito gruppo è lasciato a se stesso o meglio alle rispettive famiglie. Sembra quasi che lo stato italiano si sia detto ad un certo punto: "nel corso degli anni le famiglie hanno accumulato una bella fetta di ricchezza vivendo al di sopra delle proprie possibilità cosa in parte riflessa dall'alto indebitamento dello stato, che siano esse a mantenere i propri figli precari".
Qualunque sia stata la motivazione, mi preme far presente che si tratta di una scelta politica più che economica. La maggior parte dei paesi con cui normalmente ci confontiamo - quelli definiti ad economia avanzata per intenderci - hanno sussidi e forme di assistenza economica che investono indifferentemente tutti i lavoratori. Questo garantisce ad una persona di poter sopravvivere per un certo periodo anche senza un occupazione e smorza l'instabilità che un sistema flessibile inevitabilmente genera.
L'attuale governo ha una posizione che definirei schizofrenica a riguardo. Brunetta diceva a Marzo:
«E' vero. Il ministro Sacconi e io abbiamo fornito ai colleghi alcuni dati. Che confermano una mia convinzione: il mercato del lavoro italiano, al di là delle sue contraddizioni, è mirabile, funzionale, efficiente, flessibile, reattivo, intelligente, e a modo suo equo. Molto "italian", ma con più luci che ombre. Con tanta gente che rischia e troppi privilegi, d'accordo. Ma, per come è andato costruendosi nel dopoguerra, con un insieme di pesi e contrappesi, sotto l'influenza di forze imprenditoriali e sindacali, istituzioni, territori, culture, è il più efficace d'Europa. Relazioni industriali e ammortizzatori sociali compresi. Marco Biagi diceva che era il peggior mercato del lavoro».
Francamente mi trovo d'accordo con il povero Marco Biagi un signore che non smise mai in fase di scrittura della legge 30, attribuita postuma allo stesso Biagi, di insistere sull'istituzione di un sistema di ammortizzatori sociali per i lavoratori flessibili.
A Maggio Brunetta sembrava aver cambiato in parte idea. Sulla crisi affermava:
«Paradossalmente ha reso più ricchi trenta milioni di italiani: tutti i lavoratori dipendenti e pensionati con i redditi saliti automaticamente del quattro per cento, mentre l’inflazione è al due. Il loro potere d’acquisto, dunque, è aumentato». E assicura: «Cambieremo questo Welfare scassato, che costa tanto e protegge solo i pensionati, poco i giovani e pochissimo le famiglie»
Sui costi che comporterebbe l'eventuale passaggio dal sistema attuale ad uno con una forma di protezione universale scrisse un articolo Tito Boeri qualche mese fa, che vi invito a leggere nella sua interezza. Dice Boeri:
A regime con la disoccupazione costante, sarebbe pertanto necessario reperire circa 15,5 miliardi di euro, 8 in più di quelli oggi assorbiti dai vari tipi di sussidi di disoccupazione ordinari e a requisiti ridotti e dalle indennità di mobilità, che verrebbero assorbite e rese più generose con il sussidio unico. Se il sussidio unico sostituisse anche la Cig straordinaria, il costo netto aggiuntivo si ridurrebbe a 6,5 miliardi.
Il sussidio potrebbe essere interamente finanziato con un contributo pari al 3,3 per cento della retribuzione, rispetto ai contributi oggi tra l’1,6 e il 2,4 per cento per i sussidi ordinari e all’1,2 per cento destinato a Cig straordinaria e indennità di mobilità. I nostri calcoli ipotizzano che tutti i posti di lavoro, esclusi 3 milioni di lavoratori autonomi (veri) finanzino il sussidio ordinario. Con una retribuzione media di 20mila euro lordi.
L'ipotesi di Boeri prevede quindi un aumento della contribuzione dei lavoratori. Un suggerimento ardito da fare nel paese dell'Unione Europa che può vantare il più alto carico di tassazione sul lavoro. Tasse che andrebbero invece ridotte. Su questo versante un intervento statale sarebbe necessario. Nonostante tutto, reputo un sistema universale e ben congeniato di ammortizzatori sociali essere talmente fondamentale ed il relativo aumento di spesa sufficientemente limitato da appoggiare il suggerimento di Boeri. L'unico appunto che mi sento di fargli riguarda lo stress test a cui ha sottoposto il suo modello. Esso prevede un livello di disoccupazione pari al 10%, ma se dovessimo prendere per buone le stime dell'FMI il prossimo anno in Italia la disoccupazione toccherà il 10,5%.
Una volta che il mercato sia diventato più snello e flessibile e che i lavoratori abbiano ottenuto una protezione universale può venire eliminato tranquillamente l'articolo 18. Esso risulterebbe solo il retaggio anacronistico di un epoca passata, il privilegio di una classe ristretta di lavoratori.
L'ultimo importante punto su cui pone l'attenzione Schindler riguarda la contrattazione delle retribuzioni. In Italia il sistema sarebbe troppo rigido rappresentando un peso ed un costo in termini di efficienza delle aziende. Per Schindler la capacità di contrattazione delle aziende andrebbe aumentata. Normalmente i sindacati ed i lavoratori non vedono di buon occhio, per ovvie ragioni, operazioni di questo genere. In fondo per le aziende, si tratterebbe di ottenere la capacità di moderare gli incrementi degli stipendi a seconda delle proprie necessità. Come compensazione, in un caso simile lo stato dovrebbe ridurre la tassazione sul lavoro dipendente in modo da incentivare i lavoratori ad accettare questo cambiamento. Chiedere un sacrificio in cambio di nulla secondo Schindler crea inutili tensioni e spinge i sindacati ad un netto rifiuto. Questo genere di accordi andrebbe concordato tra le parti.
Come esempi riusciti di simili operazioni Schindler cita il caso Belga, quello Irlandese e l'accordo Olandese di Wassenaar del 1982.
Il grafico sotto mostra la relazione tra la riduzione della disoccupazione ed un intervento sia dal lato della contrattazione che sul versante della tassazione sul lavoro:
Il grafico sotto invece mette in relazione il costo per le casse statali degli interventi di riduzione fiscale - per i 4 casi presi in esame da Schindler - con l'aumento di introiti sotto forma di tasse che si avrebbe in seguito all'aumento dell'occupazione. In soldoni quanto costerebbe allo stato ognuno dei 4 casi in esame:
Queste 3 riforme: riduzione del PMR, estensioni a tutti i lavoratori degli ammortizzatori fiscali, aumento della capacità di contrattazione delle aziende combinata con una riduzione della tassazione sul lavoro sono le 3 riforme fondamentali da fare riguardo al mercato del lavoro. Non necessariamente le uniche. E' comprensibile che quando si tratti questo argomento i lavoratori comincino a preoccuparsi visto come sono state affrontate questioni simili in passato.
A questo proposito può essere utile tenere a mente le indicazioni di Schindler su come dovrebbe agire un paese serio:
- Cercare di rendere il sistema più concorrenziale e produttivo
- Valutare con attenzione l'ordine in cui fare le riforme evitando come la peste riforme abbozzate
- Evitare di creare precarietà, insicurezza ed instabilità sociale
- Non chiedere qualcosa in cambio di nulla
L'ultimo punto sollevato da Brock riguarda la "Gestione del cambio demografico all'interno del mercato del lavoro", in altri termini come affrontare l'invecchiamento della popolazione con il conseguente aumento della spesa per le pensioni.
Brock arriva a dire che molti della generazione del baby boom, a causa della crisi economica che ha falcidiato i fondi pensione, saranno costretti ad andare in pensione a 75 anni. Gli USA si troveranno di fronte ad un esercito di vecchietti disperati che si accalcherà davanti agli uffici di collocamento.
La questione è molto seria e non solo negli USA. Come hanno riportato qualche giorno fa tutti i quotidiani, l'OCSE ha bacchettato l'Italia. Il nostro paese per le pensioni ha speso nel 2005 il 14% del suo PIL, circa il 30% della spesa pubblica complessiva. Il doppio della media dei paesi OCSE. Nel decennio 1995-2005 la spesa previdenziale è aumentata del 23%. Solo paesi quali Giappone, Corea, Portogallo e Turchia, secondo l'Ocse, hanno avuto aumenti simili (o superiori). Onestamente non mi pare che dal 2005 in avanti la situazione sia drammaticamente migliorata. Nella tabella sotto, presa dalla relazione unificata sull'economia e la finanza pubblica, si può verificare, nella riga in fondo, la variazione % delle uscite degli enti previdenziali.
Aumentare la popolazione attiva significa da un lato mandare la gente in pensione più tardi, da un altro aumentare il tasso di popolazione attiva giovane tramite l'immigrazione. Questo con buona pace di chi è insofferente nei confronti degli immigrati. Al di là delle modalità di immigrazione e di altri aspetti economici del fenomeno che si possono discutere e meriterebbero un post a se stante, il numero di immigrati in Italia non farà che aumentare in futuro. Se la gente non è stata "prodotta" in passato e non viene più "prodotta" ad un tasso sufficente, essa va importata. Detta in maniera cruda, la scelta è tra l'immigrazione ed il fallimento. Nessun partito politico qualunque cosa possa dichiarare in pubblico, sceglierà mai la seconda opzione.
Purtroppo non basta aumentare la popolazione attiva, bisogna incrementare anche il tasso di partecipazione, cioè la quantità di gente che possiede un lavoro o lo cerca attivamente - avendo la ragionevole aspettativa di trovarlo prima o poi - rispetto al totale della popolazione attiva. Vanno quindi aumentati anche i posti di lavoro. Ciò ci riporta ancora una volta all'incremento del PIL e alle riforme sopra esposte sul mercato del lavoro e sull'aumento della produttività.
Penso che a giochi fatti adotteremo tutte e 3 le possibili alternative per quel che riguarda il sistema previdenziale, arrivando anche a tagliare le pensioni.
Riassumendo:
Aumentare il PIL per come funziona il sistema economico è imperativo per arrivare ad un miglioramento dei conti statali e della situazione economica generale, più importante di quanto potrebbe rivelarsi un qualsiasi taglio della spesa pubblica.
Riuscire a produrre un aumento del PIL - o quanto meno un diminuzione meno drastica - nel mezzo di una crisi economica terribile come quella attuale non è ne banale ne scontato:
- Vanno evitate le spese per opere pubbliche di dubbia utilità che a fronte di un temporaneo e limitato miglioramento sul versante occupazionale aggravino il deficit statale
- Va diminuito il PMR, facilitando il sorgere di nuove aziende, alleggerendo il carico burocratico, eliminando una serie di barriere all'ingresso e nei confronti degli investimenti. A fronte di un costo sul breve termine si avrebbero dei benefici permanenti e duraturi
- Vanno incentivati gli investimenti privati in tecnologia ed il capitalismo di ventura come consiglia Brock, tramite delle agevolazioni fiscali
- Vanno tagliate le spese inutili. I tagli vanno fatti ed in Italia ci sarebbero tantissime spese superflue da tagliare. Purtroppo in questo paese i tagli vengono fatti troppo spesso in maniera indiscriminata, tagliando insieme all'erba cattiva anche quel che c'è di buono. Molte spese improduttive invece, come quelle di un apparato politico mastodontico che si porta dietro clientele, consulenze, auto blu e tutto un insieme di costi che sommati genera una cifra consistente, non vengono (stranamente) mai toccate.
- Va riformato il mercato del lavoro estendendo a tutti i lavoratori gli ammortizzatori sociali, riducendo la tassazione sul lavoro e aumentando la capacità di contrattazione sulle retribuzioni da parte delle aziende. La riduzione fiscale sui lavoratori dovrebbe superare l'aumento dovuto alla creazione di un sussidio universale di disoccupazione. A fronte di una diminuzione delle entrate fiscali sul breve termine si avrebbe sul medio periodo un incremento degli occupati e delle entrate.
- Bisogna intervenire sulla spesa previdenziale, aumentando l'età pensionabile e tagliando la spesa previdenziale. Non è piacevole da suggerire, ma ormai la questione non riguarda più quel che ci piacerebbe, ma quello che possiamo realisticamente permetterci ed una spesa simile, con certi tassi di incremento, non possiamo più permettercela.
Questi sono alcuni suggerimenti, se vogliamo banali - ho semplicemente cercato di spiegare un minimo la logica economica che vi sta dietro - su interventi che ritengo andrebbero fatti. Sono considerazioni di tipo qualitativo. Non ho i mezzi e neppure le capacità (e se li avessi non avrei tempo sufficiente a disposizione) per poter dire quanto, quantitativamente parlando, potrebbe costare questa o quella riforma e che ritorno futuro potrebbe generare. Posso giusto appellarmi in linea generale ai calcoli di gente più competente di me (Schindler o Boeri ad esempio) o ai dati dell'OCSE e del Tesoro.
Naturalmente anche applicando tutte le indicazioni sopra elencate non è detto che le condizioni di questo paese migliorerebbero in maniera apprezzabile. La crisi che stiamo attraversando è qualcosa di inedito le cui ripercussioni sono difficili da prevedere.
Mi rendo anche conto che dire: "bisognerebbe fare questo e quello" è molto facile, metterlo in pratica complicatissimo. Escludendo però, una riunione generale dei principali soggetti economici del mondo, volta ad una riscrittura completa e concordata (niente a che vedere con la farsa dell'ultimo G20) del sistema economico mondiale, non vedo molti altri interventi che l'Italia nel suo piccolo possa compiere (ogni suggerimento od obiezione a riguardo è ben accetta).