mercoledì 24 giugno 2009

Sul rapporto Debito/PIL (seconda parte)

Innanzi tutto mi scuso per essere scomparso di nuovo per un lungo periodo, ma sono stato assorbito da numerosi impegni. In secondo luogo, come sempre in questi casi lancio un avviso: questo post è insensatamente lungo (anche per i miei standard), leggermente ripetitivo, ma spero sufficientemente chiaro. Se non siete degli eroi vi consiglio di leggerlo un pò alla volta.


Il PIL di un stato può essere definito in diversi modi equivalenti tra loro. Sulla relativa pagina della Wikipedia esso viene descritto come:

  • la produzione totale di beni e servizi dell'economia, diminuita dei consumi intermedi ed aumentata delle imposte nette sui prodotti (aggiunte in quanto componenti del prezzo finale pagato dagli acquirenti);
  • la somma dei redditi dei lavoratori e dei profitti delle imprese; nell'attività produttiva si sopportano, infatti, costi per l'acquisto di beni e servizi da consumare o trasformare (i consumi intermedi) e costi per la remunerazione dei fattori produttivi lavoro e capitale; la produzione al netto dei consumi intermedi coincide quindi con la somma delle retribuzioni dei fattori.

Più schematicamente, il valore del PIL viene ricavato sommando tra loro quattro fattori: il consumo privato, gli investimenti lordi, la spesa pubblica e la differenza tra esportazioni ed importazioni.

Nel suo articolo, Brock definisce gli elementi che influenzano la variazione del PIL in una maniera semplice ed intuitiva. Essi sono: la variazione dell'occupazione e la variazione della produttività. In altri termini, il PIL dipende strettamente da quanta gente lavora complessivamente all'interno di uno stato e da quanto, ogni individuo è in grado di produrre.

Questo legame, tra PIL, occupazione e produttività è noto da tempo.Tanto per fare un esempio, il governo australiano nell'IGR (Inter-Generational Report) - un rapporto che cerca di prevedere la traiettoria del PIL e dell'economia sul lungo periodo - tiene conto per i propri calcoli di cinque variabili chiave:

  • Il livello della popolazione con più di 15 anni (la popolazione attiva)
  • Il tasso di partecipazione (quanta gente lavora o cerca attivamente lavoro, rispetto al totale della popolazione attiva)
  • Il tasso di occupazione
  • La media delle ore lavorate
  • La produttività

Nella prima parte di questo articolo misi in evidenza come sia indispensabile aumentare il PIL dell'Italia per poter efficacemente diminuire il rapporto tra il debito pubblico ed il PIL stesso. Agire solo sul lato dell'indebitamento si rivela alla lunga una strategia castrante, destinata a fallire.

Dalle considerazioni di Brock risulta chiaro come siano due le strade che vanno percorse in questo senso: una che possa portare ad un aumento della produttività ed un'altra in grado di condurre ad un incremento dell'occupazione.

La tabella sotto, presa dal World Economic Outlook dell'FMI, riporta l'andamento della produttività, del costo del lavoro per unità prodotta e dei guadagni orari nei principali paesi ad economia avanzata.


Basta dare un occhiata all'andamento della produttività in Italia rispetto agli altri grandi paesi per capire che da tempo in questa nazione, qualcosa non sta andando per il verso giusto. Mentre l'Italia agonizza con una variazione della produttività che ondeggia poco sopra e poco sotto lo zero, la Germania - che non a caso viene usata spesso come esempio - incassa degli incrementi che vanno dal 3% al 7%.

Per quel che concerne il livello di retribuzione oraria, il dato italiano mostra, negli ultimi anni, un aumento più marcato rispetto a quello tedesco. Si tratta però, di un incremento che rimane tutto sommato aderente ai valori medi calcolati dall'FMI. Niente di drammatico insomma. La vera voragine ci si para d'innanzi quando si confronta il costo del lavoro per unità prodotta italiano con quello tedesco: se esso nel 2005 saliva in Italia del 2,2%, in Germania scendeva del 3,1%. Nel 2006 in Italia, esso cresceva del 4% in Germania invece calava del 4,2%. E così via.

In soldoni, da parecchi anni a questa parte, gli stipendi in Italia sono aumentati più velocemente di quando non sia aumentata la produttività e ciò si è riflesso sul costo del lavoro per unità prodotta, facendolo salire in maniera eccessiva. Per ovviare a questo problema, si potrebbe agire dal lato delle retribuzioni riducendole. In un caso simile sarebbe forse più corretto parlare di un aumento dell'efficienza del sistema più che di produttività, dove con efficienza si intende la differenza tra i costi in ingresso e il valore in uscita delle merci. Si tratterebbe probabilmente della soluzione più semplice, ma come ho scritto sopra, la variazione delle retribuzioni non si discosta in maniera significativa dai valori medi dell'FMI. Su di esse bisogna intervenire, ma in maniera limitata (riprenderò il discorso più avanti).

Il versante su cui operare veramente è un altro: la produttività.

Il metodo classico per conseguire un aumento della produttività è attraverso l'innovazione tecnologica. Un miglioramento della tecnologia a disposizione delle aziende consente loro di migliorare gli automatismi, quindi di ridurre la quota di lavoro umano aumentando al contempo la produzione. Inoltre, visto l'alto costo delle tecnologie d'avanguardia, l'innovazione contribuisce in maniera significativa al PIL di un paese attraverso le esportazioni. Diversi studi poi, dimostrerebbero come un ambiente di lavoro confortevole - sedie ergonomiche, climatizzazione degli ambienti ecc - possa aumentare la produttività dei lavoratori in maniera significativa.

Se l'innovazione tecnologica si rivela un elemento così fondamentale, il fatto di sentir sempre ripetere in televisione "la ricerca! dove è finita la ricerca?", non è un buon segnale. L'Italia è un paese che investe pochissimo in ricerca tecnologica. Sia lo stato che - ancora peggio - le aziende private. Siamo un paese che in seguito all'abbandono della lira e all'introduzione dell'euro, ha perso il controllo sulla propria moneta e la possibilità di ricorrere alla svalutazione competitiva. In altri termini, come nazione avremmo dovuto puntare da tempo sulla produzione di beni ad alto contenuto tecnologico, con elevato valore aggiunto e difficilmente replicabili dai paesi emergenti.

Invece ci siamo concentrati su produzioni di basso livello o di livello intermedio mettendoci in competizione con giganti come la Cina. Abbiamo una miriade di piccole e medie imprese che non hanno le dimensioni e le risorse necessarie ad investire in ricerca tecnologica e una classe imprenditoriale che troppo spesso si è rivelata miope ed incolta.

Si tratta di questioni di cui si è sentito spesso dibattere in tv anche se in maniera superficiale.

Brock nel suo articolo avanza alcuni suggerimenti, riferiti al caso USA, su come intervenire per aumentare la produttività:
  • Investimenti statali in infrastrutture in particolar modo sul versante energetico
  • Stimolare l'innovazione tecnologica e il capitalismo di ventura
  • Sostenere l'educazione e l'elitismo
  • Imporre un sistema fiscale che premi l'innovazione ed il successo
  • Incentivare gli investimenti nel settore privato
  • Ridurre la burocrazia

Ho scritto diverse volte cosa penso della spesa in infrastrutture, specialmente nel mezzo di una crisi come quella attuale. Brock giustifica il tutto tirando in ballo il moltiplicatore Keynesiano. Si tratta di un concetto introdotto nel 1931 da Richard F. Khan, secondo il quale un aumento della spesa pubblica produce come effetto un incremento dei consumi che è un multiplo della spesa iniziale. Purtroppo, come ha scritto André Lara Resende, un economista Brasiliano in un recente articolo, è noto da tempo che in una situazione come quella odierna, in cui il tasso di indebitamento della popolazione risulta estremamente elevato, il moltiplicatore Keynesiano non funzioni.

La gente invece di spendere il denaro che gli capita tra le mani lo mette da parte sotto forma di risparmio o lo usa per pagare i propri debiti annullando gli effetti moltiplicativi. Al di là delle considerazioni di Resende è lo stesso concetto di moltiplicatore Keynesiano ad essere da tempo messo in discussione. In questo articolo pubblicato su Forbes vengono presentate alcune delle posizioni classiche sulla diatriba, facendo riferimento al caso degli interventi di stimolo economico operati dal governo USA.

Nel caso italiano non è neppure necessario scomodare Keynes. Brock invoca opere pubbliche che a fronte di un investimento odierno possano portare un giovamento futuro all'economia sotto forma di servizi migliori che facciano risparmiare tempo ed energia andando a migliorare quindi l'efficienza dell'intero sistema. In Italia molte delle opere pubbliche si sono storicamente rivelate delle cattedrali nel deserto. Un inutile spesa che ha creato poco lavoro, nessun valore duraturo ed è andata ad incidere pesantemente sul bilancio statale (qui potete leggere un recente articolo sulla questione).

Non significa che in Italia non vada mai fatta nessuna opera pubblica. Semplicemente in una situazione come quella odierna, potrebbe rivelarsi controproducente spendere in infrastrutture aumentando il Deficit statale, con il rischio di non ricavarne nessun reale vantaggio futuro e minimi vantaggi attuali.

Gli altri punti indicati da Brock li trovo tutti condivisibili e possono essere riassunti con: "incentiviamo l'innovazione".

Premiare il merito, sostenere l'educazione, favorire gli investimenti privati, ridurre la burocrazia e rimodulare l'imposizione fiscale sono tutti interventi che dovrebbero contribuire a fare emergere i migliori, i più colti, indirizzandoli verso la ricerca tecnologica e liberando loro la strada da barriere burocratiche e inutili balzelli fiscali.

L'elitismo è un dato di fatto in ogni società organizzata. Si dice che valga la regola del 80/20 - quello che viene anche chiamato il principio di Pareto dal nome dell'economista italiano (Vilfredo Pareto) che per primo lo formalizzò nel 1848. Secondo Pareto, in ogni società un 20% della popolazione arriva naturalmente a costituire un elite. Questo indipendentemente dal tipo di organizzazione che la società stessa si è data (fascismo, comunismo ecc). Il punto semmai è come questa elite venga selezionata. Se emerge grazie a dei meriti personali e alla manifestazione di indubbie capacità essa costituisce un prezioso asset per la comunità, fermo restando che far parte dell'elite o se vogliamo chiamarla in un altro modo, della "classe dirigente", non può comportare l'essere al di sopra della leggi e delle regole che valgono per il restante 80% della popolazione.

Da questo punto di vista l'Italia è un disastro. Il fatto che esista un fenomeno definito "fuga di cervelli" la dice lunga. Formiamo gente capace nelle più disparate discipline scientifiche, investendo tempo e denaro per poi farle scappare via, spesso controvoglia, verso paesi in cui le loro competenze possano venire sfruttate pienamente.

A ciò si aggiunge un imposizione fiscale che non incentiva le aziende nuove e di dimensioni ridotte, fondate spesso da giovani, ad investire in ricerca. Se siamo pieni di piccole e medie aziende potremmo almeno cercare di incentivare la loro crescita e il loro sviluppo tecnologico. Spesso mi trovo ad affermare: "google non sarebbe mai potuto nascere in Italia". Troppi ostacoli, burocrazia, tasse.

Le strategie che propone Brock per favorire un aumento dell'occupazione sono 5:

  • Forte crescita del PIL
  • Composizione del Deficit
  • Deregolamentazione del mercato del lavoro
  • Gestione del cambio demografico all'interno del mercato del lavoro
  • Politica fiscale

I primi due punti sono una semplice ripetizione di quanto già esposto. Brock afferma che applicare le sue indicazioni sull'aumento della produttività incrementerebbe il PIL e quindi condurrebbe ad una conseguente crescita dell'occupazione dato lo stretto legame tra quest'ultima ed il Prodotto interno lordo di una nazione. Allo stesso tempo rimarca l'importanza di un incremento del deficit tramite la spesa pubblica in infrastrutture per aumentare l'occupazione, argomentazione su cui mi sono già espresso.

Nell'ultimo punto Brock si concentra sulla politica fiscale USA consigliando una riduzione della tassazione sul lavoro e l'introduzione dell'IVA (che non esiste od è minima in gran parte del territorio USA), una forma di tassazione che produrrebbe minori distorsioni sull'efficienza di un economia. Per quel che riguarda l'Italia possiamo vantare un'IVA molto elevata - del 20% per la maggior parte delle merci - ed il più alto carico fiscale sul lavoro di tutta l'Unione Europea. Un altro tormentone dei politici e degli economisti è sempre stata la riduzione della tassazione sul lavoro.

I punti fondamentali suggeriti da Brock sono il terzo ed il quarto. In particolare sul terzo, quello della deregolamentazione del mercato del lavoro è stato fatto un disastro in Italia dalla metà degli anni 90 in avanti.

In un recente documento che potete trovare sul sito dell'FMI, Martin Schindler, compie un impietosa analisi del mercato del lavoro Italiano. Schindler mette in luce quelli che dovrebbero essere i punti fermi di ogni riforma degna di questo nome. Innanzi tutto andrebbero evitate come la peste le riforme abbozzate. Ogni vantaggio che esse possono portare sul breve termine si trasforma alla lunga in un instabilità che pesa sull'intero sistema. In secondo luogo, ad essere fondamentale è l'ordine con cui le riforme vengono attuate più che le riforme in se stesse.

Due punti centrali che ho sempre sollevato quando mi sono trovato ad affrontare l'argomento "mercato del lavoro". A chi mi chiedeva se fossi d'accordo sull'abolizione dell'articolo 18 ho sempre risposto in maniera affermativa, aggiungendo però che se si trattasse di eliminarlo domani mi sarei detto contrario.

Prima vanno compiute altre riforme.

La riforma Treu del 1997 e quella Maroni del 2003, che hanno introdotto e poi modificato ciò che viene definito "flessibilità", hanno avuto un impatto positivo sull'occupazione facendola crescere progressivamente dal 1995 in avanti. Il grafico sotto, basato sui dati dell'OCSE, mostra chiaramente questo andamento:


La linea rossa che rappresenta la disoccupazione precipita, mentre quella marrone del tasso di partecipazione e quella nera del rapporto tra l'occupazione e la popolazione totale salgono in maniera marcata. La maggior parte dell'incremento sul versante occupazionale si è avuto nei lavori a termine e part-time. I lavori a termine sono aumentati dal 1995 al 2007 dal 7,2% al 12,4% mentre quelli part-time sono saliti dal 10,5% ad oltre il 15%. In termini assoluti dice Schindler il numero di lavoratori a termine è più che raddoppiato nel periodo considerato, mentre quelli con un lavoro a tempo indeterminato sono aumentati solo del 7%.

Questo calo della disoccupazione potrebbe essere considerato un dato positivo se non vi fossero di mezzo tutta una serie di problemi. Il primo ancora una volta è quello alla produttività. Nell'immagine sotto potete vedere in forma grafica cosa abbia fatto la produttività in Italia rispetto ai maggiori paesi industrializzati nel periodo 1995-2006:


La produttività è rimasta al palo venendo sopravanzata in maniera significativa dall'aumento della retribuzione oraria.

L'Italia insomma, come scrissi in precedenza ha puntato sull'efficienza più che sulla produttività. La flessibilità incrementa l'efficienza del sistema dando alle aziende la capacità di regolare le proprie necessità di manodopera in maniera dinamica a seconda dell'andamento del mercato. Uno strumento senz'altro comodo per le aziende, ma una crescita della produttività avrebbe bisogno di personale stabile, dall'elevata preparazione, individui quasi indispensabili (termine che farebbe inorridire molti economisti) che possano lavorare in un ambiente accogliente e con strumenti adeguati.

Invece ci siamo ritrovati con eserciti di persone costrette ad tirare avanti con contratti precari, stipendi bassi ed una grande incertezza riguardo il proprio futuro. Il 50% dei disoccupati italiani impiega più di un anno prima di trovare una nuova occupazione. Come si può vedere nell'immagine sotto siamo ai primi posti in Europa su questo versante:


L'aggravante in Italia è che a differenza di gran parte delle altre nazioni, i lavoratori temporanei se licenziati si ritrovano senza rete di salvataggio. Il modello di riferimento di quella che viene chiamata "flex-security" sono quello Danese e quello Olandese. Si dice che il sistema debba essere efficiente quindi flessibile, ma che allo stesso tempo dovrebbe essere equo, cioè dovrebbe fornire una serie di ammortizzatori sociali in grado di sostenere un lavoratore flessibile durante quei periodi in cui si trova privo di lavoro.

Il mercato del lavoro Italiano è piagato da profonde assimetrie.

Il primo versante su cui intervenire dovrebbe essere quello del mercato dei prodotti riducendo il carico di regolamentazioni di cui è gravato. Si parla dell'insieme di pastoie burocratiche che pesano sulle aziende, sui professionisti, che operano come barriera di entrata nei confronti dei soggetti che si affacciano per la prima volta sul mercato e così via. L'OCSE ha sviluppato un indicatore in questo senso che chiama PMR (product market regulation). Per capire meglio cosa si intende quando si parla di mercato dei prodotti riporto sotto il diagramma che riassume le diverse voci usate dall'OCSE per calcolare il PMR:


E' noto che un mercato dei prodotti strettamente regolato è correlato in senso negativo con la crescita dell'occupazione. In altro termini se si vuole migliorare l'occupazione è necessario avere un sistema in cui sia facile fare impresa, non ci si debba scontrare con una burocrazia costosa e oppressiva, vi sia un reale regime di concorrenza ecc. L'immagine sotto, presa dalla documentazione di Schindler, mostra la correlazione tra PMR e occupazione - più è alto il PMR e più è bassa l'occupazione:




I dati in base a cui è stato costruito il grafico sopra sono quelli OCSE del 2003. Ad Aprile di quest'anno l'OCSE ha rilasciato i dati aggiornati sul PMR (Schindler non poteva saperlo avendo pubblicato il suo lavoro a Marzo) da cui si può notare un certo miglioramento nell'indice PMR dell'Italia.




Nonostante l'indubbio progresso, penso sia innegabile che esitano ancora tutta una serie di regolamentazioni e barriere alla concorrenza e all'ingresso che andrebbero demolite. E' vantaggioso intervenire sul mercato dei prodotti perché il costo fiscale diretto di questo genere di operazione è quasi nullo - si tratta essenzialmente di adeguamenti burocratici ed amministrativi - mentre i benefici sarebbero numerosi. Secondo il modello di Blanchard e Giavazzi del 2003 a cui fa riferimento Schindler (se siete particolarmente interessati potete leggere qualcosa di più qua): si avrebbe un aumento della concorrenza con un conseguente incremento dell'occupazione e del livello reale di retribuzione sul medio-lungo periodo a fronte di una temporanea diminuzione di entrambi.

Può sembrare discutibile consigliare una riforma che sul breve termine vada a peggiorare la situazione sul versante occupazionale e retributivo proprio nel mezzo di una crisi come quella attuale. Si tratta però, di uno di quei cambiamenti strutturali i cui benefici si farebbero sentire in maniera permanente ed investirebbero l'intero spettro economico.

Si dice che andrebbero liberate le energie giovani che il paese ha a disposizione. Il problema è che queste energie non trovano un via di sfogo: le grandi aziende trovandosi spesso in regimi di concorrenza limitata, ritengono di frequente più conveniente spendere denaro per ingraziarsi questo o quel politico in vista di possibili commesse ed appalti governativi piuttosto che investirlo per "liberare le energie giovani" confrontandosi su tecnologia e sviluppo. Per i giovani d'altro canto risulta costoso e burocraticamente complicato mettere in piedi una nuova azienda e anche nel caso ci riescano si trovano di frequente a dover fronteggiare ad armi impari una concorrenza che in molti casi può contare su "appoggi" che nulla hanno a che vedere con un libero mercato.

Mi rendo che può sembrare un eccessiva semplificazione della situazione, ma si tratta di problemi realmente esistenti che incidono pesantemente sulla produttività della nazione e sul suo sviluppo futuro. Recentemente il New York Times ha definito l'Italia come un "sistema feudale estremamente avanzato".

La parte più competente delle giovani generazioni trova da un lato un percorso che troppo spesso conduce ad una precarietà di durata indefinita e dall'altro ad una serie di porte sbarrate e grandi difficoltà nell'iniziare un attività da zero, specie se legata al campo della ricerca e della tecnologia. Non sorprende certo che nascano fenomeni come la "fuga di cervelli". In altri paesi si fa di tutto per incentivare l'immigrazione di individui preparati specie in campo tecnologico. In Italia avviene il contrario: sembra che si cerchi in ogni modo di incentivarne l'emigrazione. Un atteggiamento folle.

Un paese che non investe sui giovani e sul futuro è un paese che non avrà un futuro.

Ritengo quindi un imperativo intervenire sul lato della regolamentazione del mercato dei prodotti, incentivando competizione e merito. Bizzarramente su questo versante ha fatto più la sinistra coi vari governi Prodi (si può poi discutere sul modo) che non un Berlusconi che a parole aveva fatto della riduzione delle pastoie burocratiche e di certe liberalizzazioni un suo cavallo di battaglia.

Un mercato con più concorrenza, maggiore vitalità che sia più agile e flessibile ha anche necessità di una forza lavoro altrettanto flessibile. Aver reso i lavoratori flessibili all'interno di un mercato rigido ha creato dei vantaggi marginali, generando al contempo un instabilità sociale che non ha influito positivamente sulla produttività. Questo è un esempio di quanto sia importante l'ordine con cui vengono eseguite le riforme.

La seconda cosa da fare dopo aver agito sul PMR dovrebbe essere estendere a tutti i lavoratori un sistema di protezione sociale. Si tratta di un intervento necessario su una delle più gravi assimetrie del mercato del lavoro italiano. Alcuni lavoratori hanno garanzie e protezioni mentre un altro nutrito gruppo è lasciato a se stesso o meglio alle rispettive famiglie. Sembra quasi che lo stato italiano si sia detto ad un certo punto: "nel corso degli anni le famiglie hanno accumulato una bella fetta di ricchezza vivendo al di sopra delle proprie possibilità cosa in parte riflessa dall'alto indebitamento dello stato, che siano esse a mantenere i propri figli precari".

Qualunque sia stata la motivazione, mi preme far presente che si tratta di una scelta politica più che economica. La maggior parte dei paesi con cui normalmente ci confontiamo - quelli definiti ad economia avanzata per intenderci - hanno sussidi e forme di assistenza economica che investono indifferentemente tutti i lavoratori. Questo garantisce ad una persona di poter sopravvivere per un certo periodo anche senza un occupazione e smorza l'instabilità che un sistema flessibile inevitabilmente genera.

L'attuale governo ha una posizione che definirei schizofrenica a riguardo. Brunetta diceva a Marzo:

«E' vero. Il ministro Sacconi e io abbiamo fornito ai colleghi alcuni dati. Che confermano una mia convinzione: il mercato del lavoro italiano, al di là delle sue contraddizioni, è mirabile, funzionale, efficiente, flessibile, reattivo, intelligente, e a modo suo equo. Molto "italian", ma con più luci che ombre. Con tanta gente che rischia e troppi privilegi, d'accordo. Ma, per come è andato costruendosi nel dopoguerra, con un insieme di pesi e contrappesi, sotto l'influenza di forze imprenditoriali e sindacali, istituzioni, territori, culture, è il più efficace d'Europa. Relazioni industriali e ammortizzatori sociali compresi. Marco Biagi diceva che era il peggior mercato del lavoro».

Francamente mi trovo d'accordo con il povero Marco Biagi un signore che non smise mai in fase di scrittura della legge 30, attribuita postuma allo stesso Biagi, di insistere sull'istituzione di un sistema di ammortizzatori sociali per i lavoratori flessibili.

A Maggio Brunetta sembrava aver cambiato in parte idea. Sulla crisi affermava:

«Paradossalmente ha reso più ricchi trenta milioni di italiani: tutti i lavoratori dipendenti e pensionati con i redditi saliti automaticamente del quattro per cento, mentre l’inflazione è al due. Il loro potere d’acquisto, dunque, è aumentato». E assicura: «Cambieremo questo Welfare scassato, che costa tanto e protegge solo i pensionati, poco i giovani e pochissimo le famiglie»

Sui costi che comporterebbe l'eventuale passaggio dal sistema attuale ad uno con una forma di protezione universale scrisse un articolo Tito Boeri qualche mese fa, che vi invito a leggere nella sua interezza. Dice Boeri:

A regime con la disoccupazione costante, sarebbe pertanto necessario reperire circa 15,5 miliardi di euro, 8 in più di quelli oggi assorbiti dai vari tipi di sussidi di disoccupazione ordinari e a requisiti ridotti e dalle indennità di mobilità, che verrebbero assorbite e rese più generose con il sussidio unico. Se il sussidio unico sostituisse anche la Cig straordinaria, il costo netto aggiuntivo si ridurrebbe a 6,5 miliardi.

Il sussidio potrebbe essere interamente finanziato con un contributo pari al 3,3 per cento della retribuzione, rispetto ai contributi oggi tra l’1,6 e il 2,4 per cento per i sussidi ordinari e all’1,2 per cento destinato a Cig straordinaria e indennità di mobilità. I nostri calcoli ipotizzano che tutti i posti di lavoro, esclusi 3 milioni di lavoratori autonomi (veri) finanzino il sussidio ordinario. Con una retribuzione media di 20mila euro lordi.

L'ipotesi di Boeri prevede quindi un aumento della contribuzione dei lavoratori. Un suggerimento ardito da fare nel paese dell'Unione Europa che può vantare il più alto carico di tassazione sul lavoro. Tasse che andrebbero invece ridotte. Su questo versante un intervento statale sarebbe necessario. Nonostante tutto, reputo un sistema universale e ben congeniato di ammortizzatori sociali essere talmente fondamentale ed il relativo aumento di spesa sufficientemente limitato da appoggiare il suggerimento di Boeri. L'unico appunto che mi sento di fargli riguarda lo stress test a cui ha sottoposto il suo modello. Esso prevede un livello di disoccupazione pari al 10%, ma se dovessimo prendere per buone le stime dell'FMI il prossimo anno in Italia la disoccupazione toccherà il 10,5%.

Una volta che il mercato sia diventato più snello e flessibile e che i lavoratori abbiano ottenuto una protezione universale può venire eliminato tranquillamente l'articolo 18. Esso risulterebbe solo il retaggio anacronistico di un epoca passata, il privilegio di una classe ristretta di lavoratori.

L'ultimo importante punto su cui pone l'attenzione Schindler riguarda la contrattazione delle retribuzioni. In Italia il sistema sarebbe troppo rigido rappresentando un peso ed un costo in termini di efficienza delle aziende. Per Schindler la capacità di contrattazione delle aziende andrebbe aumentata. Normalmente i sindacati ed i lavoratori non vedono di buon occhio, per ovvie ragioni, operazioni di questo genere. In fondo per le aziende, si tratterebbe di ottenere la capacità di moderare gli incrementi degli stipendi a seconda delle proprie necessità. Come compensazione, in un caso simile lo stato dovrebbe ridurre la tassazione sul lavoro dipendente in modo da incentivare i lavoratori ad accettare questo cambiamento. Chiedere un sacrificio in cambio di nulla secondo Schindler crea inutili tensioni e spinge i sindacati ad un netto rifiuto. Questo genere di accordi andrebbe concordato tra le parti.

Come esempi riusciti di simili operazioni Schindler cita il caso Belga, quello Irlandese e l'accordo Olandese di Wassenaar del 1982.

Il grafico sotto mostra la relazione tra la riduzione della disoccupazione ed un intervento sia dal lato della contrattazione che sul versante della tassazione sul lavoro:



Secondo il modello di Schindler il caso migliore dal punto di vista occupazionale si avrebbe con una larga riduzione fiscale associata ad un moderazione degli stipendi in fase contrattuale, mentre il caso peggiore verrebbe dato da una media riduzione fiscale senza moderazione delle retribuzioni.

Il grafico sotto invece mette in relazione il costo per le casse statali degli interventi di riduzione fiscale - per i 4 casi presi in esame da Schindler - con l'aumento di introiti sotto forma di tasse che si avrebbe in seguito all'aumento dell'occupazione. In soldoni quanto costerebbe allo stato ognuno dei 4 casi in esame:



Si può notare come il caso migliore si verifichi con una media riduzione fiscale ed una concorrente moderazione degli stipendi. A fronte di un tasso di disoccupazione che calerebbe di circa il 3% si avrebbe, dopo circa un anno e mezzo, un leggero aumento degli incassi fiscali rispetto al livello pre-riforma.

Queste 3 riforme: riduzione del PMR, estensioni a tutti i lavoratori degli ammortizzatori fiscali, aumento della capacità di contrattazione delle aziende combinata con una riduzione della tassazione sul lavoro sono le 3 riforme fondamentali da fare riguardo al mercato del lavoro. Non necessariamente le uniche. E' comprensibile che quando si tratti questo argomento i lavoratori comincino a preoccuparsi visto come sono state affrontate questioni simili in passato.

A questo proposito può essere utile tenere a mente le indicazioni di Schindler su come dovrebbe agire un paese serio:

  • Cercare di rendere il sistema più concorrenziale e produttivo
  • Valutare con attenzione l'ordine in cui fare le riforme evitando come la peste riforme abbozzate
  • Evitare di creare precarietà, insicurezza ed instabilità sociale
  • Non chiedere qualcosa in cambio di nulla

L'ultimo punto sollevato da Brock riguarda la "Gestione del cambio demografico all'interno del mercato del lavoro", in altri termini come affrontare l'invecchiamento della popolazione con il conseguente aumento della spesa per le pensioni.

Brock arriva a dire che molti della generazione del baby boom, a causa della crisi economica che ha falcidiato i fondi pensione, saranno costretti ad andare in pensione a 75 anni. Gli USA si troveranno di fronte ad un esercito di vecchietti disperati che si accalcherà davanti agli uffici di collocamento.

La questione è molto seria e non solo negli USA. Come hanno riportato qualche giorno fa tutti i quotidiani, l'OCSE ha bacchettato l'Italia. Il nostro paese per le pensioni ha speso nel 2005 il 14% del suo PIL, circa il 30% della spesa pubblica complessiva. Il doppio della media dei paesi OCSE. Nel decennio 1995-2005 la spesa previdenziale è aumentata del 23%. Solo paesi quali Giappone, Corea, Portogallo e Turchia, secondo l'Ocse, hanno avuto aumenti simili (o superiori). Onestamente non mi pare che dal 2005 in avanti la situazione sia drammaticamente migliorata. Nella tabella sotto, presa dalla relazione unificata sull'economia e la finanza pubblica, si può verificare, nella riga in fondo, la variazione % delle uscite degli enti previdenziali.



Esse sono aumentate del 6,9% tra il 2006 ed il 2007, del 3,6% tra il 2007 ed il 2008 e si prevede tra il 2008 ed il 2009, un aumento del 5,9%. La spesa previdenziale cresce troppo velocemente rispetto all'aumento del nostro PIL. Per ovviare a questo non esistono ricette magiche. O si aumenta la popolazione attiva, o si riducono gli importi erogati dagli enti previdenziali o si aumenta in maniera significativa il solito PIL.

Aumentare la popolazione attiva significa da un lato mandare la gente in pensione più tardi, da un altro aumentare il tasso di popolazione attiva giovane tramite l'immigrazione. Questo con buona pace di chi è insofferente nei confronti degli immigrati. Al di là delle modalità di immigrazione e di altri aspetti economici del fenomeno che si possono discutere e meriterebbero un post a se stante, il numero di immigrati in Italia non farà che aumentare in futuro. Se la gente non è stata "prodotta" in passato e non viene più "prodotta" ad un tasso sufficente, essa va importata. Detta in maniera cruda, la scelta è tra l'immigrazione ed il fallimento. Nessun partito politico qualunque cosa possa dichiarare in pubblico, sceglierà mai la seconda opzione.

Purtroppo non basta aumentare la popolazione attiva, bisogna incrementare anche il tasso di partecipazione, cioè la quantità di gente che possiede un lavoro o lo cerca attivamente - avendo la ragionevole aspettativa di trovarlo prima o poi - rispetto al totale della popolazione attiva. Vanno quindi aumentati anche i posti di lavoro. Ciò ci riporta ancora una volta all'incremento del PIL e alle riforme sopra esposte sul mercato del lavoro e sull'aumento della produttività.

Penso che a giochi fatti adotteremo tutte e 3 le possibili alternative per quel che riguarda il sistema previdenziale, arrivando anche a tagliare le pensioni.

Riassumendo:

Aumentare il PIL per come funziona il sistema economico è imperativo per arrivare ad un miglioramento dei conti statali e della situazione economica generale, più importante di quanto potrebbe rivelarsi un qualsiasi taglio della spesa pubblica.

Riuscire a produrre un aumento del PIL - o quanto meno un diminuzione meno drastica - nel mezzo di una crisi economica terribile come quella attuale non è ne banale ne scontato:

  • Vanno evitate le spese per opere pubbliche di dubbia utilità che a fronte di un temporaneo e limitato miglioramento sul versante occupazionale aggravino il deficit statale
  • Va diminuito il PMR, facilitando il sorgere di nuove aziende, alleggerendo il carico burocratico, eliminando una serie di barriere all'ingresso e nei confronti degli investimenti. A fronte di un costo sul breve termine si avrebbero dei benefici permanenti e duraturi
  • Vanno incentivati gli investimenti privati in tecnologia ed il capitalismo di ventura come consiglia Brock, tramite delle agevolazioni fiscali
  • Vanno tagliate le spese inutili. I tagli vanno fatti ed in Italia ci sarebbero tantissime spese superflue da tagliare. Purtroppo in questo paese i tagli vengono fatti troppo spesso in maniera indiscriminata, tagliando insieme all'erba cattiva anche quel che c'è di buono. Molte spese improduttive invece, come quelle di un apparato politico mastodontico che si porta dietro clientele, consulenze, auto blu e tutto un insieme di costi che sommati genera una cifra consistente, non vengono (stranamente) mai toccate.
  • Va riformato il mercato del lavoro estendendo a tutti i lavoratori gli ammortizzatori sociali, riducendo la tassazione sul lavoro e aumentando la capacità di contrattazione sulle retribuzioni da parte delle aziende. La riduzione fiscale sui lavoratori dovrebbe superare l'aumento dovuto alla creazione di un sussidio universale di disoccupazione. A fronte di una diminuzione delle entrate fiscali sul breve termine si avrebbe sul medio periodo un incremento degli occupati e delle entrate.
  • Bisogna intervenire sulla spesa previdenziale, aumentando l'età pensionabile e tagliando la spesa previdenziale. Non è piacevole da suggerire, ma ormai la questione non riguarda più quel che ci piacerebbe, ma quello che possiamo realisticamente permetterci ed una spesa simile, con certi tassi di incremento, non possiamo più permettercela.

Questi sono alcuni suggerimenti, se vogliamo banali - ho semplicemente cercato di spiegare un minimo la logica economica che vi sta dietro - su interventi che ritengo andrebbero fatti. Sono considerazioni di tipo qualitativo. Non ho i mezzi e neppure le capacità (e se li avessi non avrei tempo sufficiente a disposizione) per poter dire quanto, quantitativamente parlando, potrebbe costare questa o quella riforma e che ritorno futuro potrebbe generare. Posso giusto appellarmi in linea generale ai calcoli di gente più competente di me (Schindler o Boeri ad esempio) o ai dati dell'OCSE e del Tesoro.

Naturalmente anche applicando tutte le indicazioni sopra elencate non è detto che le condizioni di questo paese migliorerebbero in maniera apprezzabile. La crisi che stiamo attraversando è qualcosa di inedito le cui ripercussioni sono difficili da prevedere.

Mi rendo anche conto che dire: "bisognerebbe fare questo e quello" è molto facile, metterlo in pratica complicatissimo. Escludendo però, una riunione generale dei principali soggetti economici del mondo, volta ad una riscrittura completa e concordata (niente a che vedere con la farsa dell'ultimo G20) del sistema economico mondiale, non vedo molti altri interventi che l'Italia nel suo piccolo possa compiere (ogni suggerimento od obiezione a riguardo è ben accetta).

venerdì 5 giugno 2009

Sul rapporto Debito/PIL (prima parte)

La conseguenza peggiore di non aggiornare il blog con una certa frequenza è l'accumularsi di avvenimenti significativi che meriterebbero un articolo di approfondimento tutto per loro: l'impennata nei rendimenti dei buoni del tesoro americani che tanto sta facendo preoccupare il governo cinese, l'anomala ondata di acquisiti durante l'ultimo minuto di contrattazione a wall street due venerdì fa che ha fatto gridare alla "manipolazione" della borsa, la nuova ondata speculativa sul prezzo del petrolio, il fallimento della GM ed il caso Fiat-Opel sono solo alcuni esempi.

Nonostante questo susseguirsi di eventi preferisco dedicare l'articolo di oggi ad un argomento che era stato toccato in maniera superficiale nei commenti allo scorso post, cercando di sviscerarlo un minimo: quello del rapporto tra Debito pubblico e PIL (abbreviato D/P).

Il dibattito su questo fondamentale indicatore della sostenibilità a lungo termine dell'economia di un paese sta prendendo piede anche in altri stati. I numerosi interventi finanziari imbastiti dalle nazioni di mezzo mondo per salvaguardare la stabilità economica globale, sono stati finanziati per la maggior parte grazie ad un aumento dell'indebitamento pubblico. L'andamento del rapporto D/P sta registrando una netta crescita nei paesi ad economia avanzate scatenando le ansie delle frange politiche più conservatrici in Giappone come in Inghilterra o negli USA.

Prima di addentrami oltre nel discorso però, è bene dare occhiata alla tabella sotto, nella quale viene riportato l'andamento del rapporto Debito/PIL nei principali paesi secondo le stime dell'FMI (cliccate per ingrandire l'immagine):


Prendendo in esame il caso Italiano si può notare come il rapporto D/P stia stagnando dai primi anni del 2000, dopo aver subito un significativo calo dalla metà degli anni 90 in avanti. Esso toccò il suo massimo nel 1995 arrivando ad un valore del 123,2% per poi calare progressivamente negli anni successivi fino al crollo - tra il 1999 ed il 2000 - che lo portò dal 115,1% al 110,5%. Dal 2003 ad oggi ha continuato ad ondeggiare tra il 103% ed il 105%, mentre nel prossimo futuro l'FMI prevede un netto innalzamento che lo porterà nel 2009, a toccare il 115% e nel 2010 il 121% (per chi non conosce l'inglese, nella tabella sopra il dato a cui fare riferimento è quello del "Gross Debt").

Un aumento dovuto principalmente alla crisi economica in atto, crisi che - oltre a generare un calo del Pil - produrrà sia una diminuzione delle entrate fiscali che un inevitabile aumento della spesa pubblica a sostegno dell'economia in difficoltà. A trovarsi sotto attacco quindi, sono entrambi i fattori del rapporto D/P.

Horace "Woody" Brock in un articolo su "business insider" afferma che non siano tanto aumenti improvvisi del rapporto tra il Debito ed il Pil - dovuti magari ad una momentanea crisi - a contare, quanto la traiettoria del rapporto stesso. In altri termini se esso abbia un andamento che proiettato nel futuro sia in discesa, in salita o rimanga costante. Brock cita un recente libro di Alan Beattie "False Economy: A Surprising Economic History of the World" che mostrerebbe, grazie all'analisi di numerosi casi, come esista una precisa correlazione tra il successo di una nazione e l'adozione da parte sua di politiche volte a deprimere il rapporto D/P.

In particolar modo, un alto e prolungato nel tempo rapporto D/P, è sintomo di un economia poco dinamica che necessita di profonde riforme. Riforme che in Italia sono invocate ad ogni piè sospinto, ma raramente vengono portate a termine. La ragione principale di questo incapacità riformatrice è sotto gli occhi di tutti e dovrebbe risultare ovvia. La illustra Brock, citando un altro libro "The Rise and Decline of Nations: Economic Growth, Stagflation, and Social Rigidities" di Mancur Olson, in cui viene spiegato come spesso uno Stato finisca col diventare prigioniero di un gruppo ristretto di personaggi che per difendere i loro interessi speciali finisce con l'affossare l'intera nazione.

O, detto usando le parole di Brock:

La logica che adotta Olson richiama la teoria dei giochi: Egli mostra che gruppi speciali di interessi finiscono col diventare i principali giocatori in un generalizzato scenario da "dilemma del prigioniero", dove le razionali strategie individuali di ciascun gruppo portano collettivamente ad un risultato irrazionale fatto di: calo della crescita, ridimensionamento dei propri sogni, aumento del disordine sociale fino a giungere infine alla rovina dello stato.

Stabilito che l'entità del D/P va diminuita le strade per farlo sono ovviamente due: o si riduce il valore del numeratore o si aumenta quello del denominatore. In altri termini o si diminuisce il debito pubblico o si aumenta il PIL. Tra le due strade possibili quella più conveniente da percorre è la seconda. Un aumento del PIL influirebbe positivamente anche sul debito pubblico dato che produrrebbe un aumento delle entrate fiscali, diminuendo la necessità di uno stato di ricorrere all'indebitamento per sostenere la propria spesa pubblica.

Questa è una delle ragioni principali per cui viene sempre invocato l'aumento del PIL e della crescita, quasi si trattasse di un balsamo in grado di guarire da ogni male e sempre questo, è il motivo che spinge molti economisti a suggerire un aumento della spesa pubblica durante un periodo di crisi economica. Meglio aumentare il debito per sostenere il PIL - quindi peggiorando lo stato di uno solo dei fattori del rapporto D/P - che far crollare quest'ultimo andando ad influenzare negativamente entrambi i fattori.

Nello scorso post, maat aveva accennato come a giudicare dai valori del D/P sembrasse che alcune nazioni avanzate, in particolar modo il Giappone, potessero trovarsi in una situazione più critica di quella italiana. Nel paese del Sol Levante, come si può vedere dai dati dell'FMI, si prevede che il rapporto D/P arriverà a toccare il 217% nel 2009 ed il 227% nel 2010. Una cifra che a prima vista sembra spaventosa. Se si considera la cifra relativa al debito netto ("Net Debt" in inglese, sempre nella tabella precedente) rispetto al PIL però, il rapporto crolla al 103% per il 2009 e 114% per il 2010.

Il debito netto, non è altro che il debito lordo a cui viene sottratto il valore degli asset nelle mani dello stato. Per la maggior parte degli stati ad economia avanzata non c'è una drammatica differenza tra il valore del debito lordo e quello del debito netto. Il Giappone è un caso a parte, perché tra gli assets in suo possesso conteggia anche quelli del sistema pensionistico statale. Si tratta per la maggior parte di buoni del tesoro del governo Giapponese. In sostanza lo stato Giapponese emette bot conteggiandoli come debito e li ricompra poi tramite il sistema pensionistico conteggiandoli come assets.

Il dato sul debito netto Giapponese è quindi falsato o volendo essere generosi, da prendere con le pinze. Ci rivela però, una realtà che l'Italia non può vantare. Sebbene lo stato giapponese abbia un D/P molto elevato, quindi un eccessivo debito, esso ha contratto gran parte di quel debito con la propria popolazione. Il debito estero Giapponese risulta essere relativamente basso.

Per curiosità ho cercato a quanto ammontasse il debito estero dello stato Italiano - inteso come debito pubblico con l'estero - ma si tratta di un dato che l'FMI considera facoltativo. Solo alcune nazioni, nelle quali lo stato viene considerato la figura predominante dell'economia sono tenute a presentare documentazione a riguardo (qua potete trovare la tabella interattiva dell'FMI per gli stati in questione). Generalmente è il debito lordo complessivo che interessa. Esso è dato dalla somma del debito delle pubbliche amministrazioni, delle autorità monetarie (banca centrale), altre istituzioni finanziarie monetarie (banche), altri settori (aziende non finanziarie, famiglie, ecc) e investimenti diretti (qui trovate l'ultimo pdf della banca d'Italia sul debito estero del paese e qui, se siete estremamente curiosi, potete trovare il manuale dell'FMI su come calcolare il debito estero lordo e i dettagli sulle voci che lo compongono).

Si potrebbe di certo calcolare il debito estero delle pubbliche amministrazioni rispetto al debito pubblico totale - nel caso italiano il 47% contro il 17% di quello Giapponese - ma esso rischierebbe di rivelarsi un dato elusivo. Il debito estero dell'intero settore pubblico secondo l'FMI, deve conteggiare oltre alle pubbliche amministrazioni anche gli obblighi ed i debiti di eventuali aziende possedute o garantite dallo stato. Quel 47% e 17% potrebbero quindi, subire significative variazioni al rialzo.

Un indicatore che viene tenuto in grande considerazione è invece quello del rapporto tra il debito estero lordo di uno stato (il suo debito estero complessivo: pubblico, privato ecc) ed il suo PIL. L'Italia ha un rapporto di circa il 100% - elevato ma c'è ben di peggio - mentre il Giappone si aggira attorno al 55% (vedi nota in fondo).

Secondo l'FMI e la Banca mondiale "si può dire che una nazione abbia raggiunto la sostenibilità del suo debito estero se è in grado di servire (pagare la quota dell'interesse ndr) in pieno il suo debito estero presente e futuro, senza dover ricorrere all'emissione di nuovo debito, accumulare arretrati o compromettere la crescita". Sempre secondo queste due istituzioni internazionali la sostenibilità del debito estero può essere raggiunta "portando il valore netto presente del debito pubblico estero (si intende il debito pubblico estero complessivo - debito estero pubblico + debito estero pubblicamente garantito - quel dato che l'FMI richiede solo a certe nazioni ndr) al 150% del valore delle esportazioni della nazione o al 280% del valore delle sue entrate fiscali" (se vi interessa l'argomento qui trovate un interessante studio sulla questione).

Dando un occhiata alla tabella sotto si può notare in questo senso, una grande differenza tra l'andamento delle esportazioni Giapponesi e quelle Italiane:


Il Giappone, come la Germania, è una vera e propria potenza dell'export, mentre le esportazioni italiane sono a dir poco stagnanti. Anche su questo fronte usciamo sconfitti dal confronto con il Giappone.

In definitiva per il paese del sol levante il problema dell'indebitamento si risolverà probabilmente con un regolamento di conti interno. Da un lato avendo la possibilità di emettere la propria moneta sarà in grado di ricorrere alla svalutazione e da un altro continuerà ad incentivare l'export con ogni mezzo. Difficilmente basterà. Non penso che il Giappone possa sperare di cavarsela senza metter mano al portafoglio, operando quindi una stretta fiscale in futuro e senza riformare sostanzialmente il suo sistema.

Noi, oltre ad avere un export stagnante e a dover gran parte del nostro debito all'estero, non possiamo neppure svalutare.

Queste solo alcune delle ragioni che mi spingono ad affermare che l'Italia sia in condizioni economiche peggiori rispetto al Giappone, sebbene sulla carta possa vantare un rapporto D/P largamente inferiore. Un altro paese di cui sarebbe interessante discutere sono gli Stati Uniti, il cui rapporto D/P nel 2010 toccherà il 97,5%. Si tratta però di un caso molto particolare che meriterebbe un articolo tutto per se, ragion per cui lo tralascerò per ora. Del caso Inglese invece si è occupato nel suo ultimo articolo, Willem Buiter, professore alla London School of Economics.

Preoccupato dal raddoppio che il D/P del paese anglosassone rischia di subire nei prossimi anni, Buiter butta li una formula del terrore per descrivere la sostenibilità del rapporto D/P:

p + s ≥ (r - g)b

La formula in realtà è meno complicata di quel che sembra. La parte a sinistra conteggia gli incassi di uno stato. Con p si intende l'avanzo primario permanente (con permanente Buiter intende la media degli avanzi primari futuri sul lungo termine) rispetto al PIL, con s il reddito da signoraggio della banca centrale - il guadagno che essa incassa in virtù della sua capacità di emettere moneta - che nel caso Inglese vengono girati alle finanze pubbliche. Nel caso Italiano non so quanto possa essere la s, cioè se una parte del reddito da signoraggio della BCE venga girata ai singoli stati membri dell'unione europea. Si tratterebbe comunque di cifre molto basse. Possiamo semplicemente considerare quella s come inesistente.


La parte destra è leggermente più complicata. La b rappresenta la quota del debito pubblico rispetto al PIL (in sostanza il D/P non espresso in termini percentuali, nel caso italiano 1,15 per il 2009 e 1,21 per il 2010). La parte fondamentale della formula è quell' (r-g). La r rappresenta il tasso di interesse reale a lungo termine. Buiter utilizza quello sul debito dello stato a scadenza ventennale per i suoi calcoli. La g rappresenta il tasso di crescita a lungo termine del PIL reale. Con tasso di interesse reale e PIL reale si intendono i valori nominali (quelli che trovate in giro di solito) depurati dall'inflazione.

In sostanza come dice Buiter, fino a che la g, il tasso di crescita del PIL, è superiore a r, il tasso di interesse reale a lungo termine, uno stato vive in Ponzi land. Può continuare a finanziare se stesso semplicemente emettendo nuovo debito senza dover aver degli avanzi primari. Il problema è quello che potrebbe accadere in futuro sia al tasso di crescita del PIL che al tasso reale di interesse. Dice Buiter:

Certo, nell'attuale recessione, la crescita del PIL è negativa così l'attuale tasso di interesse reale sul debito pubblico rt supera il tasso di crescita del PIL reale, gt ma la solvibilità non è una semplice questione di relazioni legate al ciclo attuale tra tasso di crescita, tasso di interesse, avanzo primario e ricavi da signoraggio, ma dipende dai loro valori sul lungo termine. Fino a che r è minore di g ogni valore del rapporto Debito/PIL è consistente la solvibilità dello stato in una condizione non inflattiva.

Quindi, per preoccuparsi circa la solvibilità dello stato Inglese, o delle implicazioni inflative dell'attuale e futuro deficit del budget, si dovrebbe credere che il valore corrente dei rendimenti reali registrati sul debito governativo index-linked (agganciato all'inflazione ndr) a lungo termine sottostima il tasso di interesse reale che il governo dovrà pagare in futuro, e/o che il tasso di crescita del PIL reale in futuro sarà più basso rispetto a quello delle ultime due decadi.


Ora come ora il tasso di interesse reale è basso in quasi tutto il mondo, ma se in futuro il tasso di interesse reale aumentasse superando in maniera significativa il tasso di crescita del PIL, un elevato rapporto D/P come quello del nostro paese si farebbe sentire rendendo necessario un avanzo primario positivo di una certa consistenza. Buiter facendo dei conti per il caso Inglese arriva a concludere che nei prossimi anni l'Inghilterra avrà realisticamente bisogno di un avanzo primario che sommato al reddito da signoraggio superi l'1,75% del PIL (considerando solo l'avanzo primario esso dovrebbe raggiungere almeno l'1,5% PIL).

Un livello che ritiene sarà difficile da ottenere considerando il deficit fiscale in cui lo stato è incorso per cercare di sostenere l'economia. L'avanzo primario è definito come "la differenza fra le entrate e le spese pubbliche, senza considerare gli interessi da pagare sul debito". In sostanza per aumentare l'avanzo primario si possono alzare le tasse o tagliare le spese, imponendo quindi una rigorosa disciplina fiscale.

L'unica serie storica sull'andamento dell'avanzo primario rispetto al PIL dell'Italia - il dato con accanto la variazione percentuale - l'ho trovata su questo sito. Non potendo verificare se i dati corrispondano a quelli ufficiali prendeteli con le dovute cautele (sebbene corrispondano a ciò che ricordo):

1994: 2,1
1995: 3,9; + 85,7
1996: 4,4; + 12,8
1997: 6,7; + 52,3
1998: 5,2; - 22,4
1999: 5,0; - 3,8
2000: 4,5; - 10,0
2001: 3,2; - 28,9
2002: 2,7; - 15,6
2003: 1,7; - 37,0
2004: 1,3; -23,5
2005: 0,5; - 61,5
2006: 0,4; -20,0 (questo dato l'ho aggiunto io)

Osservando la traiettoria che ha seguito l'avanzo primario nel corso degli anni si nota un progressivo calo, iniziato negli anni del governo D'alema 97-98, calo che è andato via via accentuandosi negli anni di Berlusconi fino quasi ad azzerare l'avanzo primario. Nel 2006 tornò Prodi sottoponendo il paese ad una cura da cavallo tanto che la manovra di allora fu ribattezzata "tutte tasse", ripianando le finanze dello stato e risollevando l'avanzo primario fino a portarlo al 2,7% del PIL nel 2007 e al 2,5% l'anno successivo (2008). Pensatela politicamente come vi pare, ma in questo paese Prodi ci ha sempre salvato finanziariamente il fondoschiena.

Se per l'Inghilterra Buiter prevede difficoltà a raggiungere un avanzo primario dell'1,5% potete scommettere che per noi sarà ancora peggio. Normalmente la crescita del PIL italiano è inferiore a quella degli altri paesi europei, mentre gli interessi che paghiamo sul nostro debito sono tra i più alti a causa del basso rating assegnato al nostro paese e come se non bastasse il nostro rapporto D/P è il più elevato in assoluto in Europa.

Per assicurare la sostenibilità dell'economia Italiana non si può agire unicamente dal lato del rigore fiscale.

Il fattore più importante da incentivare, come suggerisce Brock, dovrebbe essere la crescita del PIL, crescita che andrebbe ad impattare positivamente anche sulle entrate fiscali e quindi sull'avanzo primario.

Cercare semplicemente di far cassa intervenendo dal lato dell'indebitamento è una strategia che alla lunga si rivela fallimentare. Per evitare il rischio di fallimento che si affacciò nei primi anni 90 l'Italia ha agito pesantemente sul lato delle finanze pubbliche. Ha venduto le aziende controllate dallo stato, ha riformato il sistema pensionistico, alzato la tassazione, bloccato il turn over, cartolarizzato il patrimonio immobiliare, tagliato ricerca ed istruzione ad ogni pie sospinto ecc. Ha cercato insomma di far cassa come poteva e di limitare le spese. Di certo l'Italia avrebbe ancora diversi capitoli di spesa inutile da tagliare. Purtroppo molti di essi solo legati a doppio filo agli interessi di gruppi speciali e difficilmente verranno toccati, mentre dal versante fiscale dubito si possa aumentare ulteriormente il carico tributario senza strangolare i poveracci che sostengono la nostra intera economia (specialmente nel bel mezzo di questa crisi).

Esistono diverse strategie che se applicate potrebbero, a costi nulli o comunque molto contenuti, impattare favorevolmente sulla crescita del prodotto interno lordo.

Nella seconda parte di questo articolo proverò ad illustrare alcune di esse.



Nota: Se osservate i dati sul rapporto tra il debito estero di uno stato ed il relativo PIL riportati dalla classifica presente sulla pagina della Wikipedia noterete dei valori differenti da quelli che ho indicato io, sia per il Giappone che per l'Italia. I dati della Wikipedia sono sbagliati per quei due paesi. Se volete farvi il conto (alla fine è una semplice divisione) qua trovate il dato sul debito estero per le varie nazioni. Nel caso del dato italiano è evidente che chi ha fatto i conti ha erroneamente considerato per il calcolo del rapporto, il valore del debito estero per la sola voce relativa alle pubbliche amministrazioni e non il dato complessivo. Nel caso Giapponese non so proprio da dove sia spuntato il dato per il debito estero lordo che hanno usato, ma esso non centra nulla con quello indicato dall'FMI.

martedì 19 maggio 2009

Vaporware

In quelli che vengono definiti Main Stream Media è ormai raro vedere trapelare un barlume di verità. Quando per qualche ragione ciò accade, l'evento finisce col rimbalzare da un lato all'altro della rete, descritto e presentato con un certo stupore, quasi si trattasse del ritrovamento del santo Graal.

In un recente post su zerohedge viene linkato un filmato tratto da Fox Business News nel quale si sente Dan Shaffer, capo della Shaffer Asset Management pronunciare la seguente frase e rivelatrice frase:

"Qualcosa di strano è successo durante le ultime 7 o 8 settimane. Doreen, probabilmente sarai d'accordo su questo -- vi è stato un potere al di sotto del mercato che ha continuato a sostenerlo operando sui futures. Osservo i futures ogni giorno e ogni istante, e un tremendo quantitativo di volume è giunto in diversi momenti durante le ultime settimane, quando il mercato era sul punto di spezzarsi riportandolo di nuovo in alto. Di solito verso la fine della giornata - è successo una settimana fa di Venerdì, a 7 minuti alle 4, quasi 100000 contrati su S&P futures sono stati scambiati, e poi negli ultimi 5 minuti, prima delle 4, altri 100000 contratti sono stati scambiati, sostenendo il DOW e portandolo da una perdita di 18 punti a salire di 44 o 50 punti in 7 minuti. Sono necessari dai 10 ai 20 miliardi di dollari per essere in grado di spostare il mercato in questa maniera. Chi ha la quantità di denaro necessaria a muovere questo mercato?

Inoltre, il mercato è risalito durante il periodo di incertezza degli stress test facendo aumentare il valore delle azioni del settore bancario, e le banche hanno emesso nuove azioni - hanno recuperato capitale durante questo rally. E' stata una manovra da manuale di controllo dei mercati - ora che le azioni sono state emesse..."

E' confortante constatare che un minimo di verità trapeli ogni tanto anche dai canali della FOX. Gli altri ospiti della trasmissione si sono uniti alle preoccupazioni avanzate da Shaffer: Doreen lamentando il basso volumi degli scambi che ha caratterizzato il mercato in questa fase di rialzo, Richard Suttmeier annunciando la fine del recente rally a causa dei pessimi fondamentali.

Indipendentemente da quanto ancora manchi alla fine di questa fase positiva dei listini una cosa è certa: i poteri che hanno impegnato anima e corpo nel tentativo di sostenere i mercati e distruggere chiunque scommettesse al ribasso non hanno munizioni infinite. Le grandi banche USA sono riuscite a recuperare capitali sul mercato senza dover svendere le proprie azioni. La Goldman, la JP Morgan e la Morgan Stanley hanno annunciato l'intenzione di ripagare il denaro ricevuto tramite il TARP una cifra complessiva tra le 3 banche di 45 miliardi di dollari.

Citigroup ha aumentato le previsioni sui guadagni futuri della Goldman, quest'ultima ha consigliato ai suoi clienti di acquistare azioni di Bank of America basando le proprie ottimiste previsioni "su un altro solido quarto previsto per il mercato immobiliare e finanziario" come indicherebbero, a suo dire, i livelli di attività osservabili nei primi tre mesi dell'anno. Senza contare la raccomandazione all'acquisto, sempre da parte della Goldman, delle azioni della State Street Corp (una delle grandi banche USA ad aver ricevuto denaro tramite il TARP) quando proprio la Goldman - insieme alla Morgan Stanley - è stata incaricata dalla State Street di gestire una sua emissione azionaria per il valore di 1,5 miliardi di dollari.

L'intero sistema bancario insomma, sembra essere al lavoro per auto-sostenersi cercando di riparare i proprio bilanci fino a quando il mercato debitamente "aiutato" tiene.

La realtà è come sempre, meno rosea di quanto la Goldman o chi per lei vada in giro a raccontare. Il grafico sotto preso da chartoftheday mostra l'andamento dei ricavi per i titoli dello S&P 500:


Un andamento che non promette nulla di buono per il prossimo futuro. Altro dato estremamente interessante lo rivela il TrimTabs Investment Research in un articolo su marketwatch. Secondo TrimTabs che monitorizza le nuove emissioni azionarie, i buyback da parte delle aziende e gli acquisti e le vendite di azioni da parte di managers ed insider di alto livello, le prospettive sarebbero fosche.

La scorsa settimana vi sarebbe stata un offerta di nuove azioni pari a 31,3 miliardi di dollari, il più elevato livello in questa decade. A fronte di ciò non vi sarebbe stato nessun acquisto da parte di insider. Al contrario, essi avrebbero venduto azioni per l'ammontare di 500 milioni di dollari. TimTrabs ne trae la seguente conseguenza:

"Il messaggio che la "casa" sta inviando è chiaro -- gli investitori dovrebbero abbandonare il mercato azionario".

Peter Eliades la cui news letter, Stockmarket Cycles, ha ottenuto il secondo miglior risultato nel 2008 ha recentemente detto:

"Pensiamo che questo mercato sia in pericolo, forse in grande pericolo, ancora una volta. Sappiamo che può sembrare drammatico, ma il fatto che gli indici e i valori medi si siano bloccati dove lo hanno fatto, rende più evidente l'analogia tra il 1930-31 ed il periodo attuale. Fino a quando ed a meno che, nuovi massimi non siano stabiliti, è nostra convinzione che questo mercato sia diretto verso nuovi minimi per l'anno in corso e più rapidamente di quanto molti credano sia possibile".

I dati economici del primo quarto dell'anno sono tutt'altro che confortanti. In Europa l'Eurostat ha rilasciato la variazione del PIL per i paesi dell'area. Una mezza ecatombe (cliccate sulla tabella per un ingrandimento):


Ciò che fa sta facendo sperare politici ed economisti sono i dati sugli ordinativi dell'industria che hanno riscontrato un leggero miglioramento negli ultimi tempi, in particolar modo quelli della Germania la locomotiva d'Europa la cui economia ha sempre fatto un po' da traino al resto dell'Unione. Nel grafico sotto si vede come il precipitare dei nuovi ordini abbia cominciato a rallentare sensibilmente già dai primi mesi dell'anno.



Questi primi segnali di miglioramento si sono riflessi sull'indice di fiducia dei mercati, quel fattore impalpabile che influenza pesantemente l'economia e che sembra essere diventato la principale preoccupazione dei politici di mezzo mondo.



Anche'esso ha subito una chiara inversione di tendenza, la prima da quasi due anni. Purtroppo però, la fiducia dei mercati è un elemento estremamente volubile capace di invertire andamento molto rapidamente nel caso di un nuovo crollo dei mercati.

Quello che sta sostenendo la domanda industriale ed in buona parte l'economia reale, sono gli interventi economici operati dagli stati ed il calare delle scorte delle aziende a seguito di un periodo in cui i nuovi acquisti da parte di esse si erano pressoché azzerati. Sempre meglio che niente, ma non stiamo certo parlando dell'indicazione di una sostanziale ripresa economica. Rimane ad esempio l'inevasa questione su cosa accadrà una volta che gli interventi statali si saranno esauriti. Il rapporto tra debito-PIL degli stati è destinato ad allargarsi in maniera spaventosa da qui a due anni secondo l'FMI. Il paese messo peggio è il Giappone che dovrebbe arrivare nel 2010 ad avere un rapporto del 227%, ma al secondo posto ci siamo noi con rapporto previsto al 2010 del 121%.

Se la memoria non mi inganna quando la lira finì sotto attacco ed uscì dalla SME negli anni 90 portando il paese ad un tiro di schioppo dal default, il rapporto debito-PIL era del 118%. Allora avevamo ancora aziende da "privatizzare" e una classe media da tartassare e tassare. Oggi abbiamo l'Europa e l'euro che agiscono da cuscinetto, ma resta ancora da vedere se saranno sufficienti.

Quando questo rally artificiale si esaurirà definitivamente, scomparendo in uno sbuffo di vapore, tutto quello che ci rimarrà saranno i fondamentali economici. Gli interventi dei vari stati difficilmente riusciranno a compensare il continuo deterioramento del mercato immobiliare, la contrazione dei consumi e del credito. Anche se i fondamentali dovessero assestarsi, lo faranno ad un livello basso non sufficiente a sostenere in maniera stabile l'occupazione. La S&P prevede per i prossimi 12-18 mesi una disoccupazione negli USA che oscilli tra il 9,7% ed l'11,7%.

Questa crisi non finirà tanto presto.