Una grande partita a "scommettiamo che?". Questo sembra essere diventato il susseguirsi degli interventi economici da parte degli stati.
L'ultimo rilancio lo ha fatto il Giappone annunciando l'intenzione di impiegare 227 miliardi di dollari a sostegno dei valori di borsa. Il governo Giapponese comprerà direttamente azioni di banche e altre entità rispolverando una legge approvata nel 2002.
Questo genere di interventi non ha mai portato grandi risultati. Uno dei principali problemi attuali è la mancanza di fiducia che avvolge il mercato. Una sfiducia che nasce dall'aver negato agli investitori, la possibilità di controllare un bilancio potendosi fidare dei dati riportati. Di poter conoscere con precisione chi è solvente e chi non lo è, di vedere puniti quelli che hanno investito in maniera errata e sconsiderata e premiato chi era stato prudente.
La funzione fondamentale del mercato è quella definita: "price discovery". Esso dovrebbe servire a fornire indicazioni precise sul valore di un determinato bene od azienda,valutazione che dovrebbe scaturire dalla somma delle operazioni che ogni singolo investitore compie con il proprio denaro ed in piena libertà. Quando un governo decide in maniera completamente arbitraria di comprare a destra e a manca dei titoli quotati in borsa, mina alla base questa funzione.
Il risultato è di alimentare ulteriormente il clima di sfiducia. Che senso ha mettersi a giocare una partita che si sa essere truccata fin dal principio?
Non contenta la Banca centrale Giapponese è intervenuta tagliando il tasso di interesse dall'0,3% allo 0,10%, cioè da quasi nulla a circa nulla. Un altro intervento puramente cosmetico a cui la borsa di Tokyo non sembra per ora aver prestato grande attenzione.
Forse per questa ragione diversi politici Giapponesi stanno premendo con forza perché vengano adottati interventi monetari volti a indebolire lo yen. Uno yen forte come quello degli ultimi tempi impatta pesantemente sulle esportazioni e la cosa non piace affatto al comparto industriale. Si dice ad esempio, che ogni volta che lo yen si rivaluta di un unità nei confronti di euro e dollaro questo costi 450 milioni di dollari alla Toyota e proprio quest'ultima, per la prima volta in 70 anni ha annunciato di aspettarsi una perdita operativa.
Raccogliendo l'appello dei parlamentari la banca centrale Giapponese ha deciso infine di adottare nuovamente misure di quantitative easing.
Non è però il paese del Sol levante l'unico a soffrire, l'intera economia del blocco asiatico si sta bloccando. Le esportazioni Giapponesi sono crollate del 27% a Novembre, quelle Tailandesi del 19% e la situazione in Cina non è certo migliore. Scrive Pritchard sul Telegraph:
L'indice del Baltico che misura l'attività di trasporto merci via nave è precipitato del 94% da Giugno e non accenna a risalire. Il problema delle lettere di credito, lo strumento finanziario usato per garantire il pagamento delle merci spedite, non è mai stato risolto. Anche per le maggiori banche asiatiche è difficile recuperare i dollari necessari a sottoscrivere gli accordi di spedizione.
Stanno tutti correndo ai ripari, preoccupati dalle conseguenze che il continuo deteriorarsi dell'economia potrebbe produrre nelle varie nazioni. Il capo dell'FMI mette in guardia dalla possibilità di scontri e rivolti civili all'interno dei paesi maggiormente colpiti dalla crisi e si appella alle potenze mondiali perché intervengano con un coordinato intervento di natura fiscale che possa evitare lo spettro di una crescita globale ferma al 2% (sotto il 3% viene considerata recessione) ed una depressione globale.
Dal Telegraph:
Le rivolte sono già cominciate. Abbiamo assistito ad una vera guerriglia urbana tra le vie di Atene. Per 11 giorni si è respirata aria da insurrezione in diverse parti della Grecia, il cui rischio paese, misurato dai cds a 5 anni, è balzato da 122 punti a 246 in un solo mese. Gli Usa stanno silenziosamente preparando truppe militari pronte ad intervenire in caso di rivolte interne. In Russia il capo del partito politico di Putin, nella zona est del paese, ha dovuto dimettersi a seguito di violenti scontri tra manifestanti e forze dell'ordine avvenuti a Vladivostok. La protesta nasceva dalla decisione presa dalle autorità, di aumentare la tariffa di importazione sulle auto usate straniere portandola al 30%. Sono state inoltre aumentate le tasse di importazione sul pollame (sopra le quote stabilite per legge) e sui kit da fattoria portandoli rispettivamente al 95% e al 15%.
Anche la Cina si sta preparando a fronteggiare diverse rivolte da parte di lavoratori danneggiati dalla crisi economica e rimasti senza lavoro in seguito alla chiusura di numerose aziende. Le esportazioni sono calate del 2,2% a Novembre e si stima che 40 milioni di lavoratori potrebbero restare senza lavoro. Secondo i dati ufficiali la Cina avrebbe bisogno di un 8% di crescita l'anno per assorbire i nuovi laureati e la migrazione dalle campagne. Un articolo su chinaview, riporta le parole di Li Yizhong il ministro per l'industria e l'information tecnology. Yizhong ha annunciato che il governo offrirà il suo diretto supporto a 9 settori vitali: industria leggera, industria tessile, metallurgica, quella dei materiali non ferrosi, quella automobilistica, al petrolchimico, ai costruttori di navi, all'elettronica e alle telecomunicazioni.
Gli aiuti dovrebbero consistere in interventi fiscali, fondi speciali per le innovazioni ed aumenti dei prestiti bancari.
E' interessante constatare come l'articolo riesca a contraddirsi nel giro di due righe:
In una frase, Li annuncia di fatto che la Cina ricorrerà a forme di protezionismo ed in quella dopo sembra quasi avere un ripensamento ed affermare il contrario. Ora come ora è la Cina a protestare nei confronti degli Stati Uniti, accusandoli di imporre illegalmente delle tasse di importazione nei confronti di tubi d'acciaio, pneumatici e sacchi in tessuto prodotti dal paese orientale. Gli USA in risposta, hanno posto il veto alla creazione di un comitato del WTO che potesse risolvere la disputa amichevolmente e controbattono, accusando le aziende cinesi di vendere i beni in questione sotto costo grazie ad una serie di aiuti statali, col risultato di spingere fuori mercato le concorrenti americane.
Sembra di assistere ai primi embrioni di barriere commerciali. La Cina è tornata da poco ad ancorare in maniera rigida il valore della propria moneta al dollaro, abbandonato la politica di lieve apprezzamento che aveva adottato da più di un anno. Un chiaro segnale che nonostante tutto, il paese orientale continuerà a puntare fortemente sulle esportazioni.
Si riaffaccia lo spettro del Beggar-thy-neighbor ("chiedi la carità al tuo vicino"), la politica di svalutazioni monetarie e barriere commerciali che caratterizzò gli anni 30 e che ha nel malfamato Smoot-Hawley Tariff Act il suo simbolo. Allora furono gli Stati Uniti ad alzare per primi delle barriere al commercio nel tentativo di incentivare i consumi interni, ma l'operazione non produsse gli esiti sperati. Le altri grandi nazioni, per ritorsione, risposero innalzando anch'esse delle barriere escludendo gli Stati Uniti dai loro mercati. Gli USA, che allora erano il più grande esportatore mondiale, finirono con l'essere vittima della loro stessa strategia.
La Gran Bretagna abbandonò il gold standard e si dedicò al commercio con le provincie del suo vecchio impero. Ad essa si unirono poco alla volta altri paesi andando a formare un "blocco della crescita". Mentre il PIL USA crollava del 30% e quello francese del 15%, l'Inghilterra riuscì a contenere le perdite al 5%.
Adesso a trovarsi in una situazione simile a quella americana di allora è la Cina. Essa è il primo esportatore mondiale e la nazione con più grande surplus di capacità produttiva.
Micheal Pettis sul suo Blog ha pubblicato un post interessante a commento di un articolo del Telegraph, in cui un Pritchard infastidito, lamenta la testardaggine tedesca e cinese nel non voler accettare il proprio ruolo nell'odierna crisi finanziaria.
In sostanza, Pritchard teorizza che un paese come la Germania, con un surplus commerciale (7% del PIL), non dovrebbe girare le spalle ad un intervento economico congiunto di tutti i paesi Europei. La Germania non ha intenzione di pagare il prezzo della crisi anche per quei paesi che negli ultimi anni hanno ecceduto con l'indebitamento, come Spagna ed Inghilterra o con un folle rapporto debito/PIL come l'Italia. Su questo la Merkel è stata oltremodo chiara.
Secondo Pritchard però, i tedeschi dovrebbero comprendere che aiutare gli altri paesi Europei tornerebbe a loro vantaggio.
Se ognuno agisse per conto proprio nel contesto della moneta unica ogni intervento nullificherebbe l'altro. Se l'Italia avesse ancora la lira, l'attuale forza economica tedesca verrebbe riflessa dall'apprezzarsi del marco favorendo così le esportazioni Italiane. Con l'euro, se anche l'Italia agisse per sostenere la sua economia e la Germania facesse lo stesso, forte dei propri attivi commerciali, nulla cambierebbe.
La Germania, dice Pritchard, dovrebbe rendersi conto di questo fatto ed accettare di pagare il prezzo che le spetta ai fini della solidità Europea.
Durante lo scorso decennio la BCE mantenne i tassi bassi per favorire le industrie tedesche in sofferenza. Da questo punto di vista il surplus tedesco e la bolla immobiliare che si è verificata in altri paesi del vecchio continente non sono eventi separabili. L'efficiente Germania si sarebbe quindi avvantaggiata, mentre altre nazioni si stavano attivamente suicidando e adesso giocherebbe al beggar-thy-neighbour, non volendo aumentare i sui consumi interni o pagare il sostentamento delle nazioni kamikaze con parte dei suoi attivi.
Lo stesso starebbe facendo la Cina. Il paese orientale per anni avrebbe esportato il suo eccesso di capacità produttiva in occidente, in particolar modo verso gli USA, prestando contemporaneamente a questi ultimi il denaro con cui mantenere il proprio insostenibile livello di consumi. Su questa strategia la Cina ha basato tutto il suo piano di sviluppo e grazie ad essa è riuscita ad accumulare un enorme surplus commerciale ed ingenti riserve monetarie.
Pettis descrive un incontro avuto con un importante economista cinese e come esso sembrasse non capire il ruolo che la Cina ormai riveste nell'economia mondiale. I provvedimenti che questo economista proponeva erano di stampo prettamente domestico, senza considerazione alcuna per le conseguenze che avrebbero avuto a livello globale.
Il suo cruccio maggiore sembrava quello di riuscire a trovare una maniera per svalutare ulteriormente lo yuan senza provocare contemporaneamente una fuga di capitali stranieri. Un altra forma di beggar-thy-neighbour. Il tentativo di far pagare agli altri paesi il costo del rallentamento cinese. Un operazione del genere avrebbe però un effetto fortemente deflazionario sulle economie dei paesi con deficit commerciale e minerebbe alla base i loro tentativi di sostenere le rispettive economie.
Il rischio è quello di spingere il resto del mondo a ripercorre la strada degli anni 30. Allora gli Stati Uniti e la Francia si rifiutarono di sostenere la domanda, ed innalzarono barriere commerciali, provocando il crollo del Gold Standard. Alla fine tutti ci rimisero.
Di certo Keynes, durante la grande depressione, disse che per gli Stati Uniti fosse irragionevole sperare che i paesi europei con pesanti deficit potessero assorbire a forza di consumi la sovra-capacità produttiva americana. Allora (fortunatamente?) per gli USA, ci pensò la seconda guerra mondiale a fare piazza pulita della capacità produttiva Europea permettendo all'America di utilizzare il proprio surplus per colmare il deficit creatosi rendendola la prima potenza mondiale.
Dato che una guerra mondiale non se la augura nessuno, l'alternativa è che i paesi che se lo possono permettere comincino a consumare.
Ovviamente ci sono diversi problemi in questi ragionamenti. Intanto non è affatto banale riconvertire al consumo, anche solo in parte, un economia completamente sbilanciata verso l'export come quella cinese. Si tratta generalmente di un obiettivo a lungo termine mentre durante crisi economiche come l'attuale, come diceva Keynes, il lungo termine tende a diventare mortale. Se anche alcuni investimenti di natura interna, rivolti in ogni caso a supportare l'economia e l'industria locale, avverranno, il loro effetto a livello globale sarà limitato.
Inoltre non è facile spiegare ai paesi che hanno risparmiato ed investito correttamente le loro risorse che dovrebbero impiegare parte del loro surplus per sostenere il sistema. Pritchard afferma che se non lo facessero, finirebbero col danneggiare se stessi, perché l'eventuale crollo dell'economia si mangerebbe qualunque vantaggio derivante dagli attivi accumulati.
Purtroppo non esiste una reale controprova. Per quel che ne sappiamo, Cina e Germania potrebbero ritrovarsi a spendere soldi in diversi interventi, pagando anche per i paesi che nelle ultime decadi hanno fatto le cicale, senza riuscire realmente ad incidere sull'entità della crisi economica. Si potrebbero ritrovare insomma, ad aver inutilmente sprecato risorse. Risorse che potevano conservare per tempi peggiori.
L'errore più grande però, che ritengo quasi tutti stiano compiendo in questo dibattito è quello di sopravvalutare le possibilità economiche della Cina e contemporaneamente di sottovalutare la gravità della crisi.
Le stime delle FMI prevedono che il prossimo anno il PIL della Cina scenderà dal 8%-9% attuale assestandosi al 5%, un livello che per le caratteristiche dell'economia cinese significa recessione. Roubini, soprannominato "dr doom" per il suo ottimismo, nelle sue previsioni più negative prevede una crescita del PIL cinese del 4,5%.
Cosa succederebbe se invece la crescita cinese finisse con l'ondeggiare a livelli inferiori? Il 2%-3% ad esempio, o ancora peggio una crescita nulla o negativa?
La Cina si ritroverebbe nell'impossibilità di salvare se stessa, altro che contribuire a salvare il mondo dando fondo alle proprie riserve monetarie. Una crescita del PIL cinese pari allo 0% sembra un ipotesi oltraggiosa, almeno agli occhi dei maggiori economisti. In effetti David Karsbol, stratega per i mercati alla banca Saxo, intervistato dalla cnbc l'avanzò nell'ambito di un elenco di 10 possibilità che definì "oltraggiose", ma che a suo dire potrebbero verificarsi il prossimo anno.
Leggendole tutte devo dire che vi trovo ben poco di "oltraggioso". Appena un paio mi sembrano irrealistiche, come un eventuale uscita volontaria dell'Italia dall'euro.
Karsbol non sembra l'unico a pensare che la Cina potrebbe andare incontro ad un rallentamento molto più marcato di quanto generalmente previsto. George Jankovic un noto imprenditore ed ex presidente della NutriSystem, ha pubblicato su nakedcapitalism un articolo nel quale illustra la sua visione sulla condizione del paese orientale. Una visione profondamente pessimista. La produzione di energia elettrica in Cina è crollata del 9,6% a Novembre, contro un calo del 3,7% il mese prima. Secondo calcoli riportati dal Financial Times il dato anno su anno corrisponderebbe ad una crescita del PIL ridotta all'1,5%. Jankovic prevede un peggioramento di questa situazione nei primi mesi del 2009 con una crescita reale del PIL che diventerà negativa e che potrebbe rimanere tale per il resto dell'anno.
La Cina si troverebbe contemporaneamente soggetta ad un shock esterno ed uno interno. Da un lato deve fronteggiare il calo delle esportazioni dovute al crollo della domanda globale, da un altro si trova a fare i conti con lo scoppio della sua personale bolla immobiliare ed il precipitare dei listini di borsa. Se è irrealistico per il paese contare sull'export come ha fatto negli ultimi 13 anni, lo è anche sperare di compensare lo squilibrio grazie ai consumi interni. Lo stipendio della popolazione rispetto al PIL non ha fatto che calare nel corso degli anni (il PIL aumentava ma non gli stipendi) ed i singoli individui seppure non siano ricorsi all'indebitamento per giocare in borsa durante gli anni del boom, hanno comprato titoli dando fondo ai propri risparmi. Risparmi che dopo il tracollo delle borse asiatiche sono andati in fumo.
Se ci aggiungiamo l'ondata di licenziamenti e fallimenti aziendali che caratterizzerà il prossimo anno, c'è ne abbastanza per considerare i consumatori cinesi fuori gioco.
Resterebbe solo lo stato: nello specifico le grandi opere infrastrutturali. Anche su questo versante Jankovic vede nero. La costruzione delle fondamentali infrastrutture, come strade e porti, ha toccato il picco negli scorsi anni. Le reti ferroviarie toccheranno il picco nel 2008. Anche se il governo cinese decidesse di anticipare gran parte dei progetti previsti per il futuro potrebbe al massimo mantenere il livello dei lavori costante. Rimarrebbero giusto gli aeroporti, settore in cui Jankovic ritiene vi sia possibilità di espansione. Si tratterebbe però di progetti a lungo termine ancora da definire. Difficilmente potrebbero costituire una risposta adeguata alla crisi economica.
Naturalmente il governo cinese proverà in ogni modo a mantenere una crescita che arrivi almeno al 5%. Una crescita nulla o negativa metterebbe a rischio la tenuta dell'intero paese, conducendolo sull'orlo della rivolta. La Cina spenderà in interventi fiscali e di assistenza diretta tutto quello che può, come sembra dare ad intendere il ministro Li. In un contesto simile dubito che essa avrà abbastanza spazio di manovra per provare a riequilibrare il commercio mondiale aumentando significativamente la sua quota di consumi.
Anzi, se la situazione dovesse deteriorarsi troppo, per la Cina diventerebbe irresistibile la tentazione di svalutare cercando di guadagnare quote di mercato a spese degli altri paesi scatenandone così le ritorsioni commerciali. Oppure, potrebbero essere gli USA ad aprire le danze, estendendo le tariffe che impongono ai tubi d'acciaio e ai pneumatici al resto delle merci. Obama ha più volte messo in guardia la Cina, esprimendo la ferma intenzione di impedire la distruzione di lavoro qualificato americano a favore dell'equivalente cinese a basso costo.
Esiste il concreto rischio di tornare a vedere diffusi dazi e barriere all'importazione. Questo non è certamente nell'interesse della Cina che di export vive. Il paese orientale può però contare su un efficace arma di ricatto: le grandi riserve di debito pubblico americano che detiene. Minacciando di liberarsene può costringere gli USA ad adottare politiche economiche a lei più gradite. Ad esempio potrebbe obbligarli a non svalutare troppo il dollaro, cosa che diminuirebbe il valore delle riserve monetarie cinesi, oppure forzarli ad accettare in silenzio una svalutazione equivalente o superiore dello yuan.
Una situazione simile, potrebbe mantenersi solo, fino a quando gli USA accettassero di farsi ricattare. Se fossero forzati a pagare un prezzo troppo elevato o se arrivassero a ritenere le minacce cinesi un grande bluff, potrebbero rifiutare di adeguarsi alle richieste del paese orientale, aprendo la strada ad un conflitto commerciale dall'esito incerto.
Se questo avverrà, sarà attraverso un processo graduale, i cui segnali rivelatori spunteranno di quando in quando nel corso del prossimo anno, man mano che la situazione si farà più critica e paesi meno importanti decideranno di ricorrere a qualche forma di dazio o di svalutare competitivamente la propria valuta.
Pritchard conclude il suo articolo con una nota positiva (ironia):
L'ultimo rilancio lo ha fatto il Giappone annunciando l'intenzione di impiegare 227 miliardi di dollari a sostegno dei valori di borsa. Il governo Giapponese comprerà direttamente azioni di banche e altre entità rispolverando una legge approvata nel 2002.
Questo genere di interventi non ha mai portato grandi risultati. Uno dei principali problemi attuali è la mancanza di fiducia che avvolge il mercato. Una sfiducia che nasce dall'aver negato agli investitori, la possibilità di controllare un bilancio potendosi fidare dei dati riportati. Di poter conoscere con precisione chi è solvente e chi non lo è, di vedere puniti quelli che hanno investito in maniera errata e sconsiderata e premiato chi era stato prudente.
La funzione fondamentale del mercato è quella definita: "price discovery". Esso dovrebbe servire a fornire indicazioni precise sul valore di un determinato bene od azienda,valutazione che dovrebbe scaturire dalla somma delle operazioni che ogni singolo investitore compie con il proprio denaro ed in piena libertà. Quando un governo decide in maniera completamente arbitraria di comprare a destra e a manca dei titoli quotati in borsa, mina alla base questa funzione.
Il risultato è di alimentare ulteriormente il clima di sfiducia. Che senso ha mettersi a giocare una partita che si sa essere truccata fin dal principio?
Non contenta la Banca centrale Giapponese è intervenuta tagliando il tasso di interesse dall'0,3% allo 0,10%, cioè da quasi nulla a circa nulla. Un altro intervento puramente cosmetico a cui la borsa di Tokyo non sembra per ora aver prestato grande attenzione.
Forse per questa ragione diversi politici Giapponesi stanno premendo con forza perché vengano adottati interventi monetari volti a indebolire lo yen. Uno yen forte come quello degli ultimi tempi impatta pesantemente sulle esportazioni e la cosa non piace affatto al comparto industriale. Si dice ad esempio, che ogni volta che lo yen si rivaluta di un unità nei confronti di euro e dollaro questo costi 450 milioni di dollari alla Toyota e proprio quest'ultima, per la prima volta in 70 anni ha annunciato di aspettarsi una perdita operativa.
Raccogliendo l'appello dei parlamentari la banca centrale Giapponese ha deciso infine di adottare nuovamente misure di quantitative easing.
Non è però il paese del Sol levante l'unico a soffrire, l'intera economia del blocco asiatico si sta bloccando. Le esportazioni Giapponesi sono crollate del 27% a Novembre, quelle Tailandesi del 19% e la situazione in Cina non è certo migliore. Scrive Pritchard sul Telegraph:
"Pensiamo che la situazione sia estremamente seria" ha detto Stephen Jen, a capo delle operazioni valutarie alla Morgan Stanley. "Questi paesi, con un surplus delle esportazioni sono super-leveraged (super esposte ndr) nei confronti dell'occidente, ed ora stiamo vedendo un effetto moltiplicativo (al contrario), mentre il modello commerciale intra-Asiatico è posto sotto stress. Quello che è incredibile è che il Giappone abbia avuto un deficit commerciale per due mesi di fila nonostante il crollo del prezzo del petrolio. La prossima nazione da tenere d'occhio sarà la Germania" ha detto.
L'indice del Baltico che misura l'attività di trasporto merci via nave è precipitato del 94% da Giugno e non accenna a risalire. Il problema delle lettere di credito, lo strumento finanziario usato per garantire il pagamento delle merci spedite, non è mai stato risolto. Anche per le maggiori banche asiatiche è difficile recuperare i dollari necessari a sottoscrivere gli accordi di spedizione.
Stanno tutti correndo ai ripari, preoccupati dalle conseguenze che il continuo deteriorarsi dell'economia potrebbe produrre nelle varie nazioni. Il capo dell'FMI mette in guardia dalla possibilità di scontri e rivolti civili all'interno dei paesi maggiormente colpiti dalla crisi e si appella alle potenze mondiali perché intervengano con un coordinato intervento di natura fiscale che possa evitare lo spettro di una crescita globale ferma al 2% (sotto il 3% viene considerata recessione) ed una depressione globale.
Dal Telegraph:
"Se non siamo in grado di fare questo, allora rivolte sociali potrebbero verificarsi in diversi paesi, inclusi quelli ad economia avanzata. Stiamo fronteggiando un declino nella produzione senza precedenti. In tutto il mondo , la gente ha reagito con sentimenti che sono andati dalla sorpresa alla rabbia, e dalla rabbia alla paura" ha detto (Dominique Strauss-Kahn ndr).
Le rivolte sono già cominciate. Abbiamo assistito ad una vera guerriglia urbana tra le vie di Atene. Per 11 giorni si è respirata aria da insurrezione in diverse parti della Grecia, il cui rischio paese, misurato dai cds a 5 anni, è balzato da 122 punti a 246 in un solo mese. Gli Usa stanno silenziosamente preparando truppe militari pronte ad intervenire in caso di rivolte interne. In Russia il capo del partito politico di Putin, nella zona est del paese, ha dovuto dimettersi a seguito di violenti scontri tra manifestanti e forze dell'ordine avvenuti a Vladivostok. La protesta nasceva dalla decisione presa dalle autorità, di aumentare la tariffa di importazione sulle auto usate straniere portandola al 30%. Sono state inoltre aumentate le tasse di importazione sul pollame (sopra le quote stabilite per legge) e sui kit da fattoria portandoli rispettivamente al 95% e al 15%.
Anche la Cina si sta preparando a fronteggiare diverse rivolte da parte di lavoratori danneggiati dalla crisi economica e rimasti senza lavoro in seguito alla chiusura di numerose aziende. Le esportazioni sono calate del 2,2% a Novembre e si stima che 40 milioni di lavoratori potrebbero restare senza lavoro. Secondo i dati ufficiali la Cina avrebbe bisogno di un 8% di crescita l'anno per assorbire i nuovi laureati e la migrazione dalle campagne. Un articolo su chinaview, riporta le parole di Li Yizhong il ministro per l'industria e l'information tecnology. Yizhong ha annunciato che il governo offrirà il suo diretto supporto a 9 settori vitali: industria leggera, industria tessile, metallurgica, quella dei materiali non ferrosi, quella automobilistica, al petrolchimico, ai costruttori di navi, all'elettronica e alle telecomunicazioni.
Gli aiuti dovrebbero consistere in interventi fiscali, fondi speciali per le innovazioni ed aumenti dei prestiti bancari.
E' interessante constatare come l'articolo riesca a contraddirsi nel giro di due righe:
"La Cina ricorrerà a tariffe e rivedrà le sue politiche sugli scambi per facilitare l'export delle industrie ad uso intensivo di manodopera, delle principali industrie tecnologiche, e per incoraggiare le aziende locali a condurre fusioni ed acquisizioni di compagnie oltreoceano" ha detto Li Yizhong.
Li ha rimarcato l'importanza di aderire alla politica di apertura del paese nel mezzo di una contrazione internazionale del mercato e dell'emergere del protezionismo commerciale.
In una frase, Li annuncia di fatto che la Cina ricorrerà a forme di protezionismo ed in quella dopo sembra quasi avere un ripensamento ed affermare il contrario. Ora come ora è la Cina a protestare nei confronti degli Stati Uniti, accusandoli di imporre illegalmente delle tasse di importazione nei confronti di tubi d'acciaio, pneumatici e sacchi in tessuto prodotti dal paese orientale. Gli USA in risposta, hanno posto il veto alla creazione di un comitato del WTO che potesse risolvere la disputa amichevolmente e controbattono, accusando le aziende cinesi di vendere i beni in questione sotto costo grazie ad una serie di aiuti statali, col risultato di spingere fuori mercato le concorrenti americane.
Sembra di assistere ai primi embrioni di barriere commerciali. La Cina è tornata da poco ad ancorare in maniera rigida il valore della propria moneta al dollaro, abbandonato la politica di lieve apprezzamento che aveva adottato da più di un anno. Un chiaro segnale che nonostante tutto, il paese orientale continuerà a puntare fortemente sulle esportazioni.
Si riaffaccia lo spettro del Beggar-thy-neighbor ("chiedi la carità al tuo vicino"), la politica di svalutazioni monetarie e barriere commerciali che caratterizzò gli anni 30 e che ha nel malfamato Smoot-Hawley Tariff Act il suo simbolo. Allora furono gli Stati Uniti ad alzare per primi delle barriere al commercio nel tentativo di incentivare i consumi interni, ma l'operazione non produsse gli esiti sperati. Le altri grandi nazioni, per ritorsione, risposero innalzando anch'esse delle barriere escludendo gli Stati Uniti dai loro mercati. Gli USA, che allora erano il più grande esportatore mondiale, finirono con l'essere vittima della loro stessa strategia.
La Gran Bretagna abbandonò il gold standard e si dedicò al commercio con le provincie del suo vecchio impero. Ad essa si unirono poco alla volta altri paesi andando a formare un "blocco della crescita". Mentre il PIL USA crollava del 30% e quello francese del 15%, l'Inghilterra riuscì a contenere le perdite al 5%.
Adesso a trovarsi in una situazione simile a quella americana di allora è la Cina. Essa è il primo esportatore mondiale e la nazione con più grande surplus di capacità produttiva.
Micheal Pettis sul suo Blog ha pubblicato un post interessante a commento di un articolo del Telegraph, in cui un Pritchard infastidito, lamenta la testardaggine tedesca e cinese nel non voler accettare il proprio ruolo nell'odierna crisi finanziaria.
In sostanza, Pritchard teorizza che un paese come la Germania, con un surplus commerciale (7% del PIL), non dovrebbe girare le spalle ad un intervento economico congiunto di tutti i paesi Europei. La Germania non ha intenzione di pagare il prezzo della crisi anche per quei paesi che negli ultimi anni hanno ecceduto con l'indebitamento, come Spagna ed Inghilterra o con un folle rapporto debito/PIL come l'Italia. Su questo la Merkel è stata oltremodo chiara.
Secondo Pritchard però, i tedeschi dovrebbero comprendere che aiutare gli altri paesi Europei tornerebbe a loro vantaggio.
Se ognuno agisse per conto proprio nel contesto della moneta unica ogni intervento nullificherebbe l'altro. Se l'Italia avesse ancora la lira, l'attuale forza economica tedesca verrebbe riflessa dall'apprezzarsi del marco favorendo così le esportazioni Italiane. Con l'euro, se anche l'Italia agisse per sostenere la sua economia e la Germania facesse lo stesso, forte dei propri attivi commerciali, nulla cambierebbe.
La Germania, dice Pritchard, dovrebbe rendersi conto di questo fatto ed accettare di pagare il prezzo che le spetta ai fini della solidità Europea.
Durante lo scorso decennio la BCE mantenne i tassi bassi per favorire le industrie tedesche in sofferenza. Da questo punto di vista il surplus tedesco e la bolla immobiliare che si è verificata in altri paesi del vecchio continente non sono eventi separabili. L'efficiente Germania si sarebbe quindi avvantaggiata, mentre altre nazioni si stavano attivamente suicidando e adesso giocherebbe al beggar-thy-neighbour, non volendo aumentare i sui consumi interni o pagare il sostentamento delle nazioni kamikaze con parte dei suoi attivi.
Lo stesso starebbe facendo la Cina. Il paese orientale per anni avrebbe esportato il suo eccesso di capacità produttiva in occidente, in particolar modo verso gli USA, prestando contemporaneamente a questi ultimi il denaro con cui mantenere il proprio insostenibile livello di consumi. Su questa strategia la Cina ha basato tutto il suo piano di sviluppo e grazie ad essa è riuscita ad accumulare un enorme surplus commerciale ed ingenti riserve monetarie.
Pettis descrive un incontro avuto con un importante economista cinese e come esso sembrasse non capire il ruolo che la Cina ormai riveste nell'economia mondiale. I provvedimenti che questo economista proponeva erano di stampo prettamente domestico, senza considerazione alcuna per le conseguenze che avrebbero avuto a livello globale.
Il suo cruccio maggiore sembrava quello di riuscire a trovare una maniera per svalutare ulteriormente lo yuan senza provocare contemporaneamente una fuga di capitali stranieri. Un altra forma di beggar-thy-neighbour. Il tentativo di far pagare agli altri paesi il costo del rallentamento cinese. Un operazione del genere avrebbe però un effetto fortemente deflazionario sulle economie dei paesi con deficit commerciale e minerebbe alla base i loro tentativi di sostenere le rispettive economie.
Il rischio è quello di spingere il resto del mondo a ripercorre la strada degli anni 30. Allora gli Stati Uniti e la Francia si rifiutarono di sostenere la domanda, ed innalzarono barriere commerciali, provocando il crollo del Gold Standard. Alla fine tutti ci rimisero.
Di certo Keynes, durante la grande depressione, disse che per gli Stati Uniti fosse irragionevole sperare che i paesi europei con pesanti deficit potessero assorbire a forza di consumi la sovra-capacità produttiva americana. Allora (fortunatamente?) per gli USA, ci pensò la seconda guerra mondiale a fare piazza pulita della capacità produttiva Europea permettendo all'America di utilizzare il proprio surplus per colmare il deficit creatosi rendendola la prima potenza mondiale.
Dato che una guerra mondiale non se la augura nessuno, l'alternativa è che i paesi che se lo possono permettere comincino a consumare.
Ovviamente ci sono diversi problemi in questi ragionamenti. Intanto non è affatto banale riconvertire al consumo, anche solo in parte, un economia completamente sbilanciata verso l'export come quella cinese. Si tratta generalmente di un obiettivo a lungo termine mentre durante crisi economiche come l'attuale, come diceva Keynes, il lungo termine tende a diventare mortale. Se anche alcuni investimenti di natura interna, rivolti in ogni caso a supportare l'economia e l'industria locale, avverranno, il loro effetto a livello globale sarà limitato.
Inoltre non è facile spiegare ai paesi che hanno risparmiato ed investito correttamente le loro risorse che dovrebbero impiegare parte del loro surplus per sostenere il sistema. Pritchard afferma che se non lo facessero, finirebbero col danneggiare se stessi, perché l'eventuale crollo dell'economia si mangerebbe qualunque vantaggio derivante dagli attivi accumulati.
Purtroppo non esiste una reale controprova. Per quel che ne sappiamo, Cina e Germania potrebbero ritrovarsi a spendere soldi in diversi interventi, pagando anche per i paesi che nelle ultime decadi hanno fatto le cicale, senza riuscire realmente ad incidere sull'entità della crisi economica. Si potrebbero ritrovare insomma, ad aver inutilmente sprecato risorse. Risorse che potevano conservare per tempi peggiori.
L'errore più grande però, che ritengo quasi tutti stiano compiendo in questo dibattito è quello di sopravvalutare le possibilità economiche della Cina e contemporaneamente di sottovalutare la gravità della crisi.
Le stime delle FMI prevedono che il prossimo anno il PIL della Cina scenderà dal 8%-9% attuale assestandosi al 5%, un livello che per le caratteristiche dell'economia cinese significa recessione. Roubini, soprannominato "dr doom" per il suo ottimismo, nelle sue previsioni più negative prevede una crescita del PIL cinese del 4,5%.
Cosa succederebbe se invece la crescita cinese finisse con l'ondeggiare a livelli inferiori? Il 2%-3% ad esempio, o ancora peggio una crescita nulla o negativa?
La Cina si ritroverebbe nell'impossibilità di salvare se stessa, altro che contribuire a salvare il mondo dando fondo alle proprie riserve monetarie. Una crescita del PIL cinese pari allo 0% sembra un ipotesi oltraggiosa, almeno agli occhi dei maggiori economisti. In effetti David Karsbol, stratega per i mercati alla banca Saxo, intervistato dalla cnbc l'avanzò nell'ambito di un elenco di 10 possibilità che definì "oltraggiose", ma che a suo dire potrebbero verificarsi il prossimo anno.
Leggendole tutte devo dire che vi trovo ben poco di "oltraggioso". Appena un paio mi sembrano irrealistiche, come un eventuale uscita volontaria dell'Italia dall'euro.
Karsbol non sembra l'unico a pensare che la Cina potrebbe andare incontro ad un rallentamento molto più marcato di quanto generalmente previsto. George Jankovic un noto imprenditore ed ex presidente della NutriSystem, ha pubblicato su nakedcapitalism un articolo nel quale illustra la sua visione sulla condizione del paese orientale. Una visione profondamente pessimista. La produzione di energia elettrica in Cina è crollata del 9,6% a Novembre, contro un calo del 3,7% il mese prima. Secondo calcoli riportati dal Financial Times il dato anno su anno corrisponderebbe ad una crescita del PIL ridotta all'1,5%. Jankovic prevede un peggioramento di questa situazione nei primi mesi del 2009 con una crescita reale del PIL che diventerà negativa e che potrebbe rimanere tale per il resto dell'anno.
La Cina si troverebbe contemporaneamente soggetta ad un shock esterno ed uno interno. Da un lato deve fronteggiare il calo delle esportazioni dovute al crollo della domanda globale, da un altro si trova a fare i conti con lo scoppio della sua personale bolla immobiliare ed il precipitare dei listini di borsa. Se è irrealistico per il paese contare sull'export come ha fatto negli ultimi 13 anni, lo è anche sperare di compensare lo squilibrio grazie ai consumi interni. Lo stipendio della popolazione rispetto al PIL non ha fatto che calare nel corso degli anni (il PIL aumentava ma non gli stipendi) ed i singoli individui seppure non siano ricorsi all'indebitamento per giocare in borsa durante gli anni del boom, hanno comprato titoli dando fondo ai propri risparmi. Risparmi che dopo il tracollo delle borse asiatiche sono andati in fumo.
Se ci aggiungiamo l'ondata di licenziamenti e fallimenti aziendali che caratterizzerà il prossimo anno, c'è ne abbastanza per considerare i consumatori cinesi fuori gioco.
Resterebbe solo lo stato: nello specifico le grandi opere infrastrutturali. Anche su questo versante Jankovic vede nero. La costruzione delle fondamentali infrastrutture, come strade e porti, ha toccato il picco negli scorsi anni. Le reti ferroviarie toccheranno il picco nel 2008. Anche se il governo cinese decidesse di anticipare gran parte dei progetti previsti per il futuro potrebbe al massimo mantenere il livello dei lavori costante. Rimarrebbero giusto gli aeroporti, settore in cui Jankovic ritiene vi sia possibilità di espansione. Si tratterebbe però di progetti a lungo termine ancora da definire. Difficilmente potrebbero costituire una risposta adeguata alla crisi economica.
Naturalmente il governo cinese proverà in ogni modo a mantenere una crescita che arrivi almeno al 5%. Una crescita nulla o negativa metterebbe a rischio la tenuta dell'intero paese, conducendolo sull'orlo della rivolta. La Cina spenderà in interventi fiscali e di assistenza diretta tutto quello che può, come sembra dare ad intendere il ministro Li. In un contesto simile dubito che essa avrà abbastanza spazio di manovra per provare a riequilibrare il commercio mondiale aumentando significativamente la sua quota di consumi.
Anzi, se la situazione dovesse deteriorarsi troppo, per la Cina diventerebbe irresistibile la tentazione di svalutare cercando di guadagnare quote di mercato a spese degli altri paesi scatenandone così le ritorsioni commerciali. Oppure, potrebbero essere gli USA ad aprire le danze, estendendo le tariffe che impongono ai tubi d'acciaio e ai pneumatici al resto delle merci. Obama ha più volte messo in guardia la Cina, esprimendo la ferma intenzione di impedire la distruzione di lavoro qualificato americano a favore dell'equivalente cinese a basso costo.
Esiste il concreto rischio di tornare a vedere diffusi dazi e barriere all'importazione. Questo non è certamente nell'interesse della Cina che di export vive. Il paese orientale può però contare su un efficace arma di ricatto: le grandi riserve di debito pubblico americano che detiene. Minacciando di liberarsene può costringere gli USA ad adottare politiche economiche a lei più gradite. Ad esempio potrebbe obbligarli a non svalutare troppo il dollaro, cosa che diminuirebbe il valore delle riserve monetarie cinesi, oppure forzarli ad accettare in silenzio una svalutazione equivalente o superiore dello yuan.
Una situazione simile, potrebbe mantenersi solo, fino a quando gli USA accettassero di farsi ricattare. Se fossero forzati a pagare un prezzo troppo elevato o se arrivassero a ritenere le minacce cinesi un grande bluff, potrebbero rifiutare di adeguarsi alle richieste del paese orientale, aprendo la strada ad un conflitto commerciale dall'esito incerto.
Se questo avverrà, sarà attraverso un processo graduale, i cui segnali rivelatori spunteranno di quando in quando nel corso del prossimo anno, man mano che la situazione si farà più critica e paesi meno importanti decideranno di ricorrere a qualche forma di dazio o di svalutare competitivamente la propria valuta.
Pritchard conclude il suo articolo con una nota positiva (ironia):
Questa crisi ha già portato un rivoluzione monetaria con l'avvicinarsi del tasso di interesse, nei paesi dei G10, allo 0. Potrebbe ribaltare anche il "Nuovo Ordine Mondiale", a meno che non ci muoviamo con estrema cautela nei bui mesi che seguiranno. Qui è dove gli eventi si fanno pericolosi.
L'ultima grande era della globalizzazione toccò il suo apice poco prima del 1914. Conoscete il resto della storia.
4 commenti:
Ciao Stand,
Perchè scrivi "Appena un paio mi sembrano irrealistiche, come un eventuale uscita volontaria dell'Italia dall'euro"?
Le ragioni che furono elencate da Roubini già nel 2005, da Gavekal in "divorce, Italian style" e il prevedibile peggioramento del deficit dovuto alla recessione non sono sufficienti per rendere ragionevole e poco "outrageous" la predizione di David Karsbol?
Ah, intanto leggo del bailout della Lituania...
Complimenti per il blog
quando diventa difficile tutti cercano di salvare se stessi, come fa la merkel.
la paura è proprio che stiamo ripercorrendo la strada fatta nel 29.
comunque per adesso ti faccio tantissimi auguri .
a te e a tutti.
Stand,
eccellente articolo. Concordo con il quadro generale e quasi tutti i dettagli.
Per quello che riguarda il parallelo con la Grande Depressione allora la vecchia potenza in declino era la Gran Bretagna e la nuova potenza in espansione gli USA, mentre ora i ruoli sembrano assunti rispettivamente dagli USA e dalla Cina. Se il parallelo dovesse reggere gli USA sono quelli che dovrebbero riaggiustare maggiormente il proprio stile di vita eccessivo e decadente, ma la Cina sarebbe quella che si ritroverebbe con le file per una scodella di minestra. E non vedo come il sistema politico/burocratico cinese possa reggere alle file per la minestra. In questo, il parallelo con gli USA degli anni '30 sicuro non ci aiuterà.
Ciao Mar, non trovo assolutamente oltraggiosa un eventuale uscita dell'Italia dall'euro. Quello che ritengo irrealistico è che una decisione del genere possa essere volontaria. Se l'Italia uscirà dall'euro sarà perchè il resto dei paesi membri la caccerà fuori. Dubito che questo possa avvenire nel 2009. I parametri europei sul deficit verrano allentati perché difficilmente rispettabili nella situazione attuale e in ogni caso dopo aver visto che fine hanno fatto i paesi dell'est, la russia, l'islanda e le sofferenze che attraversa perfino l'Inghilterra per il fatto di non possedere un ombrello di protezione come quello fornito dalla valuta europea, piuttosto che uscirne tireremo la cinghia. L'uscita dell'Italia dall'euro penso possa avvenire solo in seguito ad un suo sostanziale fallimento (per come stanno le cose ora).
x Alessandro
Inanzitutto ciao. La Cina ha veramente grossi problemi d'affrontare. Dopo la caduta dell'Unione Sovietica il partito comunista cinese decise di cambiare profondamente il paese avendo visto nell'evento il suo possibile futuro. Negli ultimi 13 anni la Cina ha conosciuto un rapidissimo sviluppo ed ha finito col promettere ad un intera generazione di giovani un certo tipo di futuro. Ora probabilmente si troverà a disattendere le promesse fatte e la popolazione giovane già fortemente critica, rischia di trasformarsi in un movimento di protesta in grado di mobilitare buon parte del paese. L'unica maniera per tenere insieme una nazione come la Cina in un eventualità simile - rimanendone al comando come è interesse del partito fare - è attraverso una repressione armata e brutale. Nel caso potremmo dare l'addio al paese semi moderno, che conosciamo oggi.
La situazione USA è un po' strana ed ingannevole. Il paragone con la grande depressione è estremamente pericoloso. Il debito generale rispetto al PIL ha toccato livelli altissimi che ricordano da vicino il 29, ma in effetti gli USA non sono più il grande produttore di beni che erano allora. Sono principalmente una nazione di consumatori e che lo vogliano o meno saranno costretti a ridurre (come sta già avvenendo), pesantemente i loro consumi. Questo cambiamento non sarà temporaneo. Riquilibrabre il livello del debito e riportarlo vicino a livelli servibili con una crescita sostenibile richiederà anni. Non rivedremo consumi come li abbiamo visti nell'ultimo decennio per molto molto tempo. Questo avverà sia negli USA che nel resto del mondo.
Le conseguenze per l'economia americana di questo cambio traumatico sono difficili da predire. Penso sia ottimista pensare che se la caveranno come fece l'inghilterra. Il rischio di un sostanziale fallimento degli USA è alto. Se avverrà però, penso che essi avranno meno problemi a rialzarsi rispetto a quelli che potrebbero avere (avranno?) i cinesi.
Rimane per entrambi (ed anche per noi) il problema di far funzionare un economia che si era basata per anni su consumi superflui e che adesso si trova a dover fare i conti con i propri limiti.
Se non c'è e non ci può essere lavoro per tutti dati tassi di crescita sostenibile che si fa?
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