mercoledì 25 giugno 2008

Effetti collaterali

Nell'ultimo post ho parlato dell'inflazione. Un interessante articolo di repubblica mette in luce alcuni degli effetti collaterali che gli aumenti dei prezzi stanno producendo in europa:

Non per petrolio, ma per braccia: il Nordest che in anni recenti era sbarcato in massa in Romania, al punto da catalogare la contea di Timisoara come l' ottava provincia veneta, impatta oggi con il lato oscuro della delocalizzazione, arrivando in alcuni casi a programmare addirittura la marcia indietro. Per un problema legato alla più classica delle materie prime: la manodopera. Spinti dal miraggio dell' Italia ma più ancora dal caro vita del loro Paese, gli operai romeni si licenziano ed emigrano a decine di migliaia anche a costo di andare a lavorare in nero, mettendo in crisi chi aveva aperto un' azienda in casa loro.

Ne sta pagando le spese, tra i tanti, un autentico pioniere: "In Romania sono arrivato 26 anni fa, ero il quinto imprenditore italiano del tessile a delocalizzare", spiega Luigino Gastaldon, trevigiano di Castelfranco, settore abbigliamento da uomo, titolare di Bagar-Sartori Veneti, che a Bucarest ha aperto un' azienda in cooperazione con un industriale romeno. Quella che sta conoscendo è una vera e propria emorragia.«Nel giro dell' ultimo anno e mezzo, ho perso 360 dei miei 480 dipendenti, come dire tre quarti del personale. Oggi mi ritrovo con 120 unità, e sono costretto a rivedere i miei piani, spostando altrove una parte consistente della produzione». Proprio in questi giorni Gastaldon è a Tunisi per definire un' alternativa («sto trattando con due aziende italiane già presenti sul posto»), e intanto ha avviato una trattativa anche in Bulgaria. Bucarest addio, dunque?

«Qualcosa terremo: questa in fin dei conti è la nostra prima base, dove lavoriamo solo con tessuti italiani e con lo stile italiano. Ma certo è un problema ormai permanente: ogni settimana ci sono operai che si licenziano, e molti di loro lo fanno per trasferirsi in Italia». Cosa c' è alla base di questo esodo? «Sono attratti dal benessere del nostro Paese così come lo vedono in tv. Se ne vanno in particolare le donne: la metà di quelle fino ai 35-40 anni scelgono di andare a fare le badanti a 8-900 euro al mese, e magari tra loro c' è anche chi poi arrotonda con, diciamo, uno stile di vita diverso da quello cui era abituata~ Sta di fatto che chi sceglie l' Italia lo fa nella convinzione di realizzare soldi». Pesa comunque anche l' inflazione, balzata a marzo all' 8,6 per cento, contro il 4,9 del 2007, e dovuta in misura consistente all' aumento dei prezzi dei beni di largo consumo: a fronte di uno stipendio medio mensile compreso tra i 280 e i 360 euro, ad esempio, un operaio romeno paga 1,50 euro un chilo di zucchero bianco raffinato, contro gli 0,74 dell' Italia, e un litro di olio 2,04 euro contro poco meno di 1 di quello più commerciale italiano.

Come si fa fronte all' esodo, che nel solo 2007 ha registrato 25mila romeni neo assunti in Veneto? Risponde Gastaldon: «Sono stati reclutati molti lavoratori asiatici, specie del Bangladesh, ma l' esperienza si sta rivelando negativa; così il governo sta adottando una serie di misure per cercare di frenare l' emorragia». Tra queste, una Borsa dei posti di lavoro disponibili in Romania, organizzata nel febbraio scorso a Roma, con le aziende locali che oltre allo stipendio promettono a chi rientra bonus particolari, buoni-pasto e alloggi. Ma intanto in fabbrica restano i vuoti, e gli imprenditori italiani sono preoccupati non solo per i posti di lavoro non coperti, ma anche e soprattutto per la perdita di professionalità.

Gastaldon insiste molto su questo aspetto: «Nei tanti anni di presenza a Bucarest, noi abbiamo portato tutto il nostro know-how per sostenere l' immagine del prodotto. Con queste defezioni massicce di dipendenti, stiamo perdendo valori ed esperienze significative. Solo per addestrare una persona a stirare correttamente ci vuole un anno e mezzo; servono da quattro a sei mesi per imparare ad eseguire il cucito sulle operazioni normali, e da otto a dodici per le cuciture più impegnative, tipo collo e maniche. Abbiamo investito tantissimo, anche in tempo e pazienza, per adattarci alla loro mentalità.

Oggi ci ritroviamo con tre quarti del personale in meno, e non è un vuoto che si possa rimpiazzare da un giorno all' altro». Sono difficoltà che su altri piani investono anche "grandi firme" nordestine come Mario Moretti Polegato (scarpe Geox) e Gianfranco Zoppas (componentistica elettronica). Avverte Moretti Polegato: «Le cose stanno effettivamente cambiando, e una serie di piccole e medie industrie manifatturiere, soprattutto terziste, hanno deciso di chiudere i battenti. Il fatto è che la delocalizzazione deve correggere il tiro; occorre capire cosa sta succedendo e adeguarsi». O arrendersi


Di certo il mondo sta cambiando anche se è difficile capire in quale direzione.

Per combattere l'inflazione, l'emigrazione è sempre stata una soluzione adottata in passato. Considerando però quanto amore ci sia attualmente nei confronti dei romeni in Italia, un improvviso esodo potrebbe avere spiacevoli conseguenze dal punto di vista sociale.

Negli Stati Uniti strano a dirsi, sta succedendo esattamente il contrario di quello che accade tra Italia e Romania. I Messicani che han sempre affrontato lunghi viaggi della speranza, attraversando il deserto che separa il loro paese dagli USA, per finire poi a lavorare da clandestini (in america per i clandestini esiste il carcere. La cosa ha funzionato talmente bene nel corso degli anni che stanno discutendo di fare una sanatoria per 12 milioni di messicani), stanno cominciando a fare dietro front.

Le paghe negli Stati Uniti sono basse specialmente per qualcuno che è clandestino, mentre le distanze tra casa, lavoro, supermercato sono vaste e percorribili solo in auto, dato che i mezzi pubblici sono quasi inesistenti. Con il prezzo della benzina e il gasolio stabilmente sopra i 4 dollari al gallone, il costo per gli spostamenti si mangia gran parte dei soldi guadagnati.

Il resto viene speso per sopravvivere: casa, cibo ecc. Una volta tolte tutte le spese a molti non rimangono che 50 dollari da spedire ai loro famigliari in Messico.

Non ne vale più la pena.

Così molti tornano indietro nel paese d'origine, dove il costo della vita è più contenuto e il governo calmiera il prezzo dei carburanti.

Il Times riporta in suo articolo di un altro effetto "secondario" abbastanza ovvio dei rincari nei prezzi, sopratutto dell'energia, ed è il recedere naturale della globalizzazione:

Con brutale efficienza, il prezzo del petrolio sta cominciando a sottomettere uno dei mostri del ventesimo secolo: la globalizzazione. I lunghi tentacoli che hanno stretto il nostro mondo in un orribile abbraccio si stanno improvvisamente indebolendo e il polipo delle multinazionali appare leggermente pallido e malaticcio. Lo straordinario aumento nel prezzo del petrolio sta distruggendo il modello di business basato sull'outsorcing e la distanza dal cliente finale non è più una semplice questione di stupida logistica. Che tu venda acciaio o fiori il costo del trasporto è un problema.

L'industria dell'acciao americana sta godendo di un inaspettata rinascita, il suo margine competitivo risulta migliorato a causa del muro tariffario eretto dal costo per trasportare prodotti pesanti e dal basso valore aggiunto attraverso il pacifico. Si sentono meno lamentele dagli americani, riguardo il gioco al ribasso sull'acciaio compiuto dagli Asiatici; invece sono proprio gli esportatori Asiatici a sentire la stretta che deriva dal costo delle importazioni e dai costi di spedizioni ai propri clienti.

La Cina deve importare ferro e carbone, ma il costo di spedizione di una tonnellata di ferro dal Brasile alla Cina supera i 100 dollari, un costo che equivale al valore del minerale stesso. Il costo del petrolio per il passaggio dall'atlantico al pacifico sta dando prova di essere un potente strumento di negoziazione tra alcune compagnie minerarie Australiane ed i loro clienti Cinesi.

L'economia basata sui fornitori a lunga distanza sta venendo riscritta, se il prodotto è piccolo e poco costoso - medicinali e gadget elettronici ad esempio - i costi per il carburante hanno un basso impatto, ma gli oggetti ingombranti sono sotto la scure. Mobili, scarpe, macchinari di base, materiali da costruzione - questa è la roba che la Cina esporta in grandi quantità in america ed è sempre stata molto economica fino ad ora.

I costi di importazione in america rappresentano un effettiva tassa doganale: del 3% quando il prezzo del petrolio era a 20 dollari il barile nel 2000; adesso è superiore al 9% e salirà all'11 nel caso il petrolio arrivasse a toccare i 150 dollari.

Più a lungo il prezzo del petrolio resterà su valori elevati e più l'inversione tornerà a beneficio del commercio e della produzione locale. Anche se probabilmente gli Stati Uniti si limiteranno a spostare certe produzioni in posti a basso costo più vicini, come il Messico. In Cina ed India un inversione della globalizzazione può produrre effetti devastanti fino ad un vero e proprio crollo dell'economia.

Già qualcuno consiglia di stare alla larga dai due colossi mondiali.

Altro fattore da non sottovalutare è che spostare la produzione dai posti lontani come i paesi Asiatici a luoghi più vicini o locali è un processo che richiede diverso tempo. Nel frattempo saremo costretti per forza ad acquistare merci prodotte in luoghi lontani, con tutti i costi aggiuntivi dovuti alla spedizione o smettere semplicemente di acquistare certe merci (cosa che, come visto nel precedente post, sta avvenendo).

Anche un articolo di repubblica prova a riassumere la situazione:

Il Wall Street Journal registra una serie di casi di de-globalizzazione. L' azienda di pompe idrauliche che, dopo aver delocalizzato dall' Indiana alla Cina lavorazioni di fonderia per 1 milione di dollari, ha rispostato i suoi ordini sui fornitori americani. L' industria di batterie elettriche che ha ripreso ad assumere in Ohio. Il produttore di divani e quello di radiatori che, dopo aver aperto una fabbrica in Cina, ci hanno tutt' e due ripensato e sono tornati a produrre in patria, ben contenti di non essersi ancora liberati dei vecchi macchinari. La svolta può avere ripercussioni enormi sull' economia mondiale.

Gli economisti calcolano che un raddoppio del costo dei trasporti comporta una riduzione del 45 per cento dei volumi del commercio. «Non basta l' aumento del petrolio per avere effetti così vasti» osserva Paul Krugman. Tuttavia, se il petrolio restasse ai livelli attuali a lungo, Krugman valuta che il commercio mondiale potrebbe, in linea di principio, contrarsi del 17 per cento. Più che una riduzione secca, tuttavia, l' effetto più immediato sarebbe, probabilmente, un frammentarsi della globalizzazione, una regionalizzazione del commercio. È già successo. Dopo lo shock petrolifero degli anni '70, le importazioni americane da Europa e Asia si ridussero del 6 per cento, mentre aumentavano nella stessa misura quelle dall' America latina. Vedremo più etichette "made in Bulgaria", piuttosto che "made in China" nei negozi?

Possibile

Alcuni dei settori più colpiti dagli aumenti del prezzo del petrolio sono quelli dei trasporti:

La Thai Airways ha deciso di cancellare il volo diretto New York-Bangkok. L' Aer Lingus quello Dublino-Los Angeles. L' American Airlines non vola più direttamente ad Austin: bisogna fare scalo a Dallas. Gli esperti dicono che è solo l' inizio della ritirata dai lunghi voli no-stop. Ancora una volta, la colpa è del prezzo del carburante, che incide per il 40 per cento sul costo di un volo. E portare un aereo dall' Europa a Los Angeles vuol dire consumare il 30 per cento di carburante in più, ogni ora di volo, rispetto ad un volo dall' Europa a New York. Perché? Perché il carburante in più serve, appunto, a trasportare il carburante in più, necessario per un volo più lungo senza rifornimento. Non ce lo possiamo più permettere

Le compagnie aeree sentono la terribile stretta dei prezzi crescenti dei carburanti. In america, come nel resto del mondo, cercano in ogni modo di risparmiare e non aumentare i biglietti aerei. Ad esempio diminuendo il peso consentito per il bagaglio e facendo pagare a caro prezzo la necessità di portarsi dietro un bagaglio supplementare. Diverse compagnie sono sull'orlo del fallimento e stanno discutendo febbrilmente con altre di possibili fusioni.

L'intero settore è in fermento.

E' interessante notare come siano poche le compagnie che hanno comprato future per assicurarsi una fornitura di petrolio ad un prezzo bloccato e proteggersi da un rischio di rincaro del carburante. Una (di cui adesso non ricordo il nome) di esse lo fece più di anno fa, riuscendo a risparmiare il 50% sul prezzo attuale del carburante.

Per ultime ci sono le aziende automobilistiche. Se la fiat ha riscontrato cali drammatici nelle vendite degli ultimi mesi, con un meno 12,16% a Maggio mentre l'intero comparto in Italia registrava un meno 17,56%, dall'altra parte dell'oceano non va certo meglio.

Le aziende americane del settore: General Motors, Ford, Chrysler sono state messe sotto osservazione da Standard & Poor's, il che significa che hanno il 50% di probabilità di vedersi abbassare il rating.

La Ford ha ritardato la produzione del suo nuovo pick up, perché improvvisamente gli americani solitamente innamorati di essi e dei suv, hanno abbandonato la loro antica passione per problemi di portafoglio, liberandosi degli inefficenti macchinoni per cambiarli con auto dai consumi più ridotti.

La Chrysler attraversa anch'essa pesanti difficoltà economiche. A Novembre annunciò licenziamenti per 12000 persone che andavano ad aggiungersi ad piano che prevede una riduzione di 13000 unità in 3 anni. I suoi dirigenti nonostante tutto emanavano confidenza affermando che si aspettavano un rallentamento del mercato delle vendite, ma che erano preparati. Peccato che il rallentamento quando è arrivato in piena forza si è rivelato del 20% peggiore rispetto alle previsioni fatte. Si aspettavano che nel 2008 gli americani avrebbero comprato solo 15,5 milioni di veicoli, ma le vendite in Aprile sono state del 7% inferiore alle stime mentre a Maggio sono scese dell'8%. Di questo passo Citigroup stima che alla fine dell'anno saranno venduti 12,5 milioni di mezzi.

Dulcis in fundo, la General Motors, i cui dirigenti sembrano vivere a fantasilandia. In questo articolo vengono riportate le dichiarazione di Tom Wilkinson il portavoce della GM che se ne esce dicendo che stanno pensando di limitare la produzione di suv e camioncini, per concentrarsi su veicoli più efficienti:

"Li stiamo ritardando -- almeno finché non avremo una idea più chiara di dove stia andando il mercato" ha detto. "C'è un estrema incertezza su dove stia andando il mercato dei grandi veicoli, principalmente a causa del prezzo del petrolio."

Mentre alla GM stanno cercando di capire dove stia andando il mercato le vendite della Toyota sono stabilmente in crescita, grazie alla sua linea di auto ibride ed energeticamente più efficenti rispetto alle controparti Statunitensi. La Toyota ha presentato il prototipo di un auto ibrida che si possa ricaricare di elettricità, così come un auto normale fa con la benzina. Si attacca la spina ad uno speciale distributore ed in pochissimo tempo l'auto è carica.

La risposta dalla Ford è stata dichiarare la propria fiducia sull'esistenza di progettisti negli Stati Uniti in grado di costruire un auto con quel tipo di tecnologia, ma hanno poi aggiunto, che per un operazione del genere e per diffondere l'auto successivamente sul mercato sarebbe necessario l'intervento del governo.

Questo nel paese della libera impresa, che si dice aborrisca l'intervento statale.

La verità è che il mondo si sta allontanando progressivamente dalle auto di grosse dimensioni e con elevati consumi. Se prima il trend, benchè evidente restava contenuto, l'accelerazione dovuta all'aumento del costo del carburante ha colto di sorpresa i produttori americani abituati a costruire auto ingombranti e poco efficenti, che non avevano neppure fatto finta fino ad allora, di provare a produrre o anche solo a fare della ricerca seria, su auto innovative: che fossero amiche sia del portafoglio che dell'ambiente.

A riprova Wilkinson aggiunge:

"La nostra intenzione è di continuare con 7-8 linee, a seconda di cosa decidiamo di fare con l'Hummer e lo stiamo ancora decidendo" ha detto Wilkinson.

Il CEO Rick Wagoner ha detto che la GM sta pensando di rinnovare o vendere la linea dell'Hummer. Una vendita potrebbe dimostrarsi difficile considernado l'appetito per quello che è diventato un icona ingoia carburante. Le vendite dell'Hummer sono calate della metà in Aprile rispetto ad un anno prima.

Mentre la GM riflette su che farci con l'Hummer (avrei alcuni suggerimenti da avanzare a riguardo) la situazione dei suo bilancio si fa sempre peggiore. L'anno scorso ha perso 40 miliardi di dollari e sulla sua sorte girano scommesse per un trilione di dollari. C'e' gente che ha comprato i buoni e vecchi CDS (swap) scommettendo su un eventuale fallimento della GM per una cifra pari a 100 volte la capitalizzazione di mercato della General Motors.

Un altro film che per molti non avrà un lieto fine.

Tutte e 3 le storiche aziende produttrici di automobili americane sono in pessime acque e rischiano insieme a quelle aeree di andare a far compagnia ai pesci.

Ieri la GMAC il ramo finanziario delle GM che si era messo, indovinate un pò, a elargire mutui e finanziamenti e a re-impachettarli, durante gli anni del boom, è riuscito a farsi elargire 60 miliardi da una serie di banche (tra cui JP Morgan e Citigroup) evitando momentaneamente il fallimento del proprio reparto dedicato alla finanza residenziale e le cui perdite, ammontanti a 5,3 miliardi, avevano scatenato una crisi che rischiava di terminare con la bancarotta della GMAC stessa.

La GMAC non è neppure un entità secondaria. E' più grande della defunta Bear Sterns. Nata 89 anni fa, ha 27000 dipendenti e asset per 250 miliardi.

Le swap che riguardano il settore residenziale della GMAC predicono al 100% la possibilità che esso fallisca nel giro di 5 anni.

L'evento avrebbe ripercussioni enormi sul mercato, anche se non posso certo affermare che sentirei la mancanza dell'Hummer.

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