mercoledì 25 giugno 2008

Sull'Inflazione

La media dell'inflazione in Europa ha toccato il 3,7%. E' un livello storicamente basso, ma che dato l'impoverimento generale della maggior parte della popolazione genera diverse sofferenze. I maggior aumenti di prezzi si riversano sui beni di prima necessità e indispensabili, quali petrolio, quindi l'energia e gli alimentari. Gli effetti di questi aumenti non si sono fatti attendere.

Repubblica riporta che i dati sui consumi ad Aprile indicano un calo medio del 2,3% un dato che non si vedeva da anni. I prodotti maggiormente colpiti come era prevedibile sono quelli meno necesssari:

scarpe, borse e articoli da viaggio (-6,4%), abbigliamento e pellicceria (-5%), giochi, giocattoli, articoli sportivi e da campeggio (-4,9%), generi casalinghi (-4,2%) e utensili per la casa (-3,4%), libri, giornali e riviste (-3,4%), gioielli e orologi (-2,8%) e cosmetici (-2,7%).

Le vendite di alimentari sono calate di un misero 0,8%. Altro segnale importante è la crescita nel volume d'affari dei grandi magazzini e iper/supermercati, mentre i piccoli negozi sono stati completamente disertati perdendo il 4,1% di vendite:

Tutte le forme di vendita della grande distribuzione hanno registrato aumenti, ad eccezione degli hard discount che hanno segnato una variazione nulla. Gli ipermercati segnano un +0,1% (+0,8 alimentari, -0,4 non alimentari) i supermercati un +0,3%, i grandi magazzini un +0,2%, gli altri specializzati un +1%.

I dati sono molto chiari. L'inflazione sui beni indispensabili sale e per far fronte all'aumento di spesa la gente è costretta a rivolgersi ai grandi magazzini dove i prezzi sono più contenuti, evitando contemporaneamente le spese superflue come abbigliamento e viaggio. E' interessante notare come le vendite negli hard discount siano rimaste costanti. Dovendo interpretare il dato direi che chi si rivolgeva ai discount fino ad ora, ha continuato a farlo, mentre le famiglie che facevano spesa vicino a casa in piccoli negozi non hanno voluto rinunciare ai prodotti che usavano abitualmente, ma hanno preferito acquistarli negli ipermercati per risparmiare.

Quando (perchè son convinto che succederà) si verificherà un aumento di vendite significativo nei discount, esso sarà un segnale molto preoccupante ed indicherà che le famiglie han dovuto rinunciare contro voglia, ai prodotti di marca a cui erano abituate per sostituirli con equivalenti a basso prezzo.

Sarà un evento da valutare con estrema attenzione e ci sarebbe da sperare che chi di dovere gli presti la dovuta attenzione.

Nel frattempo chi di dovere (altrimenti detto Tremonti) ha scambiato alcune dichiarazioni con Epifani sul tasso di inflazione programmato. Il governo ha stabilito che esso debba essere fissato all'1,7%, sollevando le proteste della CGIL che tramite Epifani ha ribattuto che l'inflazione reale è al 3,7. Legare gli aumenti contrattuali a un tasso dell'1,7 significherebbe, quindi, far perdere 1500 euro in 3 anni di potere d'acquisito a chi ha uno stipendio medio annuale di 25000 euro.

Maurizio Blondet sul suo sito commenta lo scambio di battute:

Com’è vecchio Epifani (CGIL): crede di vivere ancora sotto la lira, al tempo della sovranità monetaria. Poichè Tremonti ha posto un «tasso d’inflazione programmato» ridicolo, 1,7%, Epifani ha fatto due conti e scoperto che un salario da 25 mila euro annui perde 1500 euro di potere d’acquisto in tre anni. Bella scoperta. Tremonti gli ha consigliato di telefonare alla BCE: «Vi spiegherà qual’ è il motivo tecnico per cui ci chiede di inserire nei documenti di finanza pubblica questa indicazione».

Appunto, non siamo più sovrani della moneta. Viviamo sotto una moneta estera, l’euro, ed è la Banca Centrale Europea a imporre il tasso d’inflazione a quel ridicolo livello. Tremonti però avrebbe dovuto spiegare meglio il motivo tecnico: si tratta del piano di impoverimento programmato, deciso dai gestori monetari, della classe media e lavoratrice europea.

La cosa risponde, in qualche modo, a giustizia: un popolo italiano che è meno colto, meno istruito, meno produttivo del popolo cinese o indiano, non può pretendere di avere un potere d’acquisto superiore. Nel prossimo decennio, ci impoveriremo al livello cino-indiano, mentre gli indiani e i cinesi saliranno tendenzialmente verso il livello attuale europeo. Ci si incontrerà a metà strada. Ma ovviamente, una cosa è essere dalla parte che sale, e ben peggio è stare dalla parte che scende.

Non è solo perdita del potere d’acquisto; è la perdita storica di possibilità che attende le generazioni future (e semi-analfabete); ci saranno meno speranze, e prospettive più ristrette. E se l’istruzione continua a scendere, ci saranno sempre meno competenze, quelle da cui dipende se risaliremo dall’abisso. E’ l’Occidente che diventa terzo mondo.

Il fenomeno non è solo italiano. Nè euro-dipendente. In Gran Bretagna, milioni di famiglie si sono accorte che il costo della vita è aumentato per loro del 6,7% annuo (inflazione reale) contro il 3,3% d’inflazione ufficiale. E un’inflazione programmata dal governo britannico del 2%.

Il fatto che l'inflazione programmata sia sempre inferiore a quella reale è principalmente a causa delle spese della stato per il welfare o la "social security" come lo chiamano in america: pensioni, assistenza sanitaria, assegni di disoccupazione ecc. Sono spese che lo stato si deve sobbarcare e sono tutte indicizzate all'inflazione programmata. Ovviamente se invece di aumentare le pensioni, e le altre spese, del 3,7% si aumentano dell'1,7% il risparmio per il tesoro è di 2 punti percentuali netti. Per certi stati come quello italiano può fare la differenza tra la bancarotta, finanziarie assassine e la sopravvivenza economica.

Blondet prosegue il suo articolo citando l'editorialista ed economista del New York Times Paul Krugman:

Paul Krugman, economista di Princeton, benchè piuttosto critico del sistema capitalistico terminale, segnala che ormai la sola cosa da fare è scongiurare l’innesco della spirale prezzi-salari degli anni ‘70-‘80. Nel 1981, il sindacato minatori USA strappò un aumento contrattuale dell’11% in 33 anni, seguito da aumenti salariali per tutte le altre categorie. «Lavoratori e datori di lavoro si impegnarono nel gioco della cavallina: i primi chiedevano aumenti di salario per tener testa all’inflazione, le ditte passavano i costi salariali maggiorati sui prezzi delle merci e servizi, e prezzi rincarati portavano ad ulteriori richieste salariali e così via». La spirale della «stag-flation». Da cui l’America è uscita con la deregulation, spietata soprattutto per i lavoratori.

Oggi, dice Krugman, è sciocco temere che l’alluvione monetaria con cui la FED ha salvato le banche d’affari provochi inflazione. «Dove sono i sindacati che chiedono aumenti salariali dell’11 %? Anzi, dove sono i sindacati tout court? I consumatori si preoccupano dell’inflazione, ma bisogna cercare col lanternino lavoratori che chiedano di compensare l’inflazione con salari più alti, e meno ancora padroni disposti. Di fatto le paghe sembrano persino rallentare, data la debolezza del mercato del lavoro».

L’offerta di lavoro - contrariamente all’offerta di petrolio - è sovrabbondante: è «giusto» che costi sempre meno. Quindi la FED fa benissimo a non aumentare il tasso primario per tenere sotto controllo l’inflazione. Non ci sarà inflazione. Il prezzo del disastro finanziario lo pagheranno i lavoratori.

Agisce qui il dogma - sancito da Milton Friedman, l’autore dell’ultraliberismo terminale - che l’inflazione è sempre e solo un problema monetario. I rincari di petrolio e cibo, che hanno altre cause, non sono definiti «inflazione». Basta, dice Krugman, che i prezzi delle materie prime calino. E caleranno perchè, nell’immiserimento generale, ci sarà meno richiesta per esse. Allora «anche l’inflazione si calmerà da sè».

Che l'inflazione sia un fenomeno (quasi) sempre monetario lo han ripetuto molti alti colleghi di Friedman a partire dagli austriaci come Mises e Rothbard. Senz'altro è ridicolo pensare che al giorno d'oggi si possa verificare il circolo vizioso che accade negli anni 70. I sindacati nella maggior parte dei paesi se non sono completamente spariti sono ridotti alla pallida ombra di ciò che erano allora e gli aumenti salariali sia nel servizio pubblico che in che in quello privato (salvo accordi particolari) sono legate alla famosa inflazione programmata. Saranno quindi sempre inferiori agli aumenti del costo della vita. A rigor di logica Krugman dovrebbe aver ragione e il problema della crescente inflazione dato l'impoverimento della gente dovrebbe risolversi da se.

Vorrei però chiedere a Krugman. Se l'inflazione è un fenomeno monetario, non ha un effetto forse, tutto il denaro creato dalle banche centrali e accumulato dai grandi speculatori e fondi d'investimento e istituzionali? Negli ultimi anni tutto questo denaro si è scaricato nel mercato della carta (azioni, bond,derivati di vario genere), inseguendo strumenti di finanza strutturata incomprensibili anche agli investitori più smaliziati. Oggi che tutta quella massa di carta si è rivelata senza valore dove si stanno scaricando tutti quei soldi creati dalle banche centrali?

Sulle materie prime, sull'energia, sugli alimentari.

Tutta una serie di merci di cui la gente ha necessità primaria. Se le banche centrali non fossero intervenute per salvare il comparto bancario diversi istituti sarebbero falliti distruggendo buona parte di quella massa di denaro fittizio e risolvendo il problema alla radice.

Invece i banchieri centrali hanno tenuta aperta una continua linea di credito per rifinaziare le banche, tramutando in reale il valore di gran parte di quella cartaccia invendibile che affolla ancora oggi i bilanci delle banche. Tutto questo denaro esiste e da qualche parte dovrà finire. Ovunque esso vada, farà salire i prezzi alle stelle che la gente abbia o meno i soldi per spendere. Se si scarica sui beni primari che la popolazione è costretta ad acquistare significa che il prezzo per il fallimento del sistema finanziario viene scaricato sulle spalle dei cittadini. Non si può chiedere alla gente di smettere di nutrirsi, di non usare luce o l'auto perchè i prezzi sono alti e se smettessimo di mangiare e guidare l'inflazione calerebbe.

Anche se i consumi di petrolio caleranno com'è naturale in questi casi, i produttori si limiteranno semplicemente a produrne di meno ed anche il cibo può venire stoccato. Gran parte dell'aumento di prezzo in questi settori è dovuta alla speculazione, non a vera scarisità. Se si volesse combattere veramente l'inflazione si andrebbe a colpire i capitali creati dai banchieri centrali come negli anni 70 si sono andati a colpire i sindacati e i salari dei lavoratori.

Stiglitz, premio nobel dell'economia e persona molto critica sull'attuale ordinamento economico del pianeta, su repubblica dice:

I presidenti delle banche centrali costituiscono un club molto chiuso e sensibile alle mode. Nei primi anni Ottanta, ad ammaliarli fu il monetarismo, una teoria economica semplicistica rappresentata in primo luogo da Milton Friedman. Dopo la caduta in discredito del monetarismo, la cui adozione fu pagata a caro prezzo da svariati Paesi, iniziò la ricerca per un nuovo mantra.

La risposta arrivò con l´inflation targeting, una strategia di politica monetaria secondo la quale ogniqualvolta la crescita dei prezzi supera un livello prestabilito devono essere alzati i tassi di interesse. Una ricetta suffragata da scarse elaborazioni di teoria economica e modeste prove empiriche: non vi sono ragioni per ritenere che la migliore risposta sia un rialzo dei tassi di interesse, indipendentemente da quali siano le fonti dell´inflazione. La speranza è che la maggior parte dei Paesi sia abbastanza sensata da non adottare l´inflation targeting. Le mie simpatie vanno in ogni caso ai cittadini di quei Paesi che lo hanno fatto (Israele, Repubblica Ceca, Polonia, Brasile, Cile, Colombia, Sudafrica, Thailandia, Corea, Messico, Ungheria, Perù, Filippine, Slovacchia, Indonesia, Romania, Nuova Zelanda, Canada, Regno Unito, Svezia, Austria, Islanda e Norvegia).


L´inflation targeting quasi certamente fallirà. I tassi di inflazione più alti che si trovano ad affrontare oggi i Paesi in via di sviluppo non sono da imputarsi a una gestione macroeconomica più carente, bensì ai prezzi in impennata del petrolio e delle materie prime alimentari e, inoltre, in questi Paesi queste voci rappresentano una quota della spesa media delle famiglie assai più alta rispetto a quella delle famiglie nei Paesi ricchi. In Cina, per esempio, l´inflazione si sta avvicinando, o sta già superando, l´8 per cento; in Vietnam è persino più alta e si prevede che quest´anno sfiori addirittura il 18,2 per cento; in India è del 5,8 per cento. Negli Stati Uniti, invece, l´inflazione si è attestata al 3 per cento. Si deve dedurre che questi Paesi in via di sviluppo devono alzare i tassi d´interesse in misura molto maggiore rispetto agli Stati Uniti?

L´inflazione in questi Paesi è, per la maggior parte, importata. Tassi d´interesse più alti avrebbero effetti esigui sul prezzo internazionale dei cereali o dei carburanti. Anzi, se si considera la dimensione dell´economia statunitense, è logico presumere che un suo rallentamento possa avere effetti sui prezzi a livello mondiale di gran lunga superiori a quelli di un rallentamento in qualsivoglia Paese in via di sviluppo, un dato che, se si assume una prospettiva globale, indica che è negli Stati Uniti e non nei Paesi in via di sviluppo, che dovrebbero essere ritoccati al rialzo i tassi.

Finché i Paesi in via di sviluppo restano integrati nell´economia globale i prezzi domestici del riso o degli altri cereali sono destinati a subire un incremento significativo ogni qual volta lo subiscono quelli internazionali. Per molti Paesi in via di sviluppo, gli alti prezzi del petrolio e delle materie prime alimentari rappresentano una tripla minaccia: non solo i Paesi importatori si trovano a sborsare di più per le granaglie, ma devono anche spendere di più per farle arrivare in questi Paesi, con un´ulteriore spesa per farle arrivare a quei consumatori che risiedono lontano dai porti.


L´incremento dei tassi d´interesse potrebbe ridurre la domanda aggregata, rallentando a sua volta l´economia e mitigando così i prezzi di alcuni beni e servizi, in particolare di quelli non determinati dal mercato. Ma, a meno che non siano portate fino a livelli intollerabili, queste misure, di per se stesse, non sono in grado di abbassare l´inflazione ai livelli target. Per esempio, anche se il ritmo dell´aumento dei prezzi dell´energia e delle materie prime alimentari a livello mondiale dovesse rallentare rispetto a quello attuale - scendendo a un 20 per cento l´anno, per esempio - e ciò si riflettesse sui prezzi interni, per fare scendere il tasso di inflazione complessivo a, diciamo, un 13 per cento, occorrerebbe una netta caduta dei prezzi da qualche altra parte. Ciò comporterebbe quasi sicuramente un significativo rallentamento dell´economia e un alto tasso di disoccupazione. La cura sarebbe peggiore della malattia.

Che cosa si dovrebbe fare dunque? Innanzitutto, non si dovrebbe addossare la responsabilità di un´inflazione importata ai politici o ai presidenti delle banche centrali, così come non deve essere attribuito loro il merito di una bassa inflazione quando l´ambiente economico complessivo è favorevole. Ora si riconosce che buona parte del pasticcio nel quale si trova attualmente l´economia degli Stati Uniti è da imputare all´ex presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, mentre qualche volta gli si attribuisce il merito della bassa inflazione registrata negli Stati Uniti durante il suo mandato. La verità è, invece, che negli anni di Greenspan, gli Stati Uniti hanno beneficiato di un lungo periodo di caduta dei prezzi delle materie prime e della deflazione in Cina, elementi che hanno contribuito a mantenere i prezzi dei manufatti sotto controllo.

Secondo, è necessario prendere atto che questi alti prezzi possono rappresentare un terribile stress per le popolazioni e, in particolare, per le persone a basso reddito. Le rivolte e le proteste che si sono avute in alcuni Paesi in via di sviluppo ne sono solo la manifestazione più evidente.
Più di 25 anni fa, ho dimostrato che, in condizioni plausibili, la liberalizzazione del commercio avrebbe potuto peggiorare la situazione per tutti. Non mi stavo pronunciando a favore del protezionismo, bensì richiamando alla cautela e ricordando la necessità di tenere presenti i rischi e di essere pronti ad affrontarli.

Nel caso dell´agricoltura, i Paesi industrializzati, come gli Stati Uniti o come i Paesi membri dell´Unione Europea, proteggono sia i loro consumatori sia i loro agricoltori da questi rischi. La maggior parte dei Paesi in via di sviluppo, invece, non ha le strutture istituzionali o le risorse per fare altrettanto. Molti stanno imponendo delle misure di emergenza quali tariffe o divieti sulle esportazioni per aiutare i propri cittadini, ma ciò avviene a spese della popolazione di altri Paesi.

Se si vuole evitare una reazione ancora più forte contro la globalizzazione, l´Occidente deve rispondere rapidamente e con forza. I sussidi per i biocarburanti, che hanno favorito una riallocazione delle terre dall´alimentazione all´energia devono essere revocati. Inoltre, alcuni dei miliardi che si spendono per i sussidi agli agricoltori in Occidente dovrebbero essere destinati ora ad aiutare i Paesi in via di sviluppo più poveri a soddisfare il loro fabbisogno minimo di cibo ed energia.

Tuttavia, più importante ancora è che sia i Paesi industrializzati sia i Paesi in via di sviluppo abbandonino la strategia dell´inflation targeting. La lotta per fare fronte ai prezzi in continua crescita delle materie prime alimentari e dell´energia è già dura abbastanza. La più debole economia e il più alto tasso di disoccupazione che comporta l´inflation targeting non avranno grandi effetti sull´inflazione, ma renderanno soltanto più arduo il compito di sopravvivere in queste condizioni.


Stiglitz si lancia contro l'aumento dei tassi e la credenza che attraverso un politica semplicemente monetaria si possa intervenire sull'inflazione. Come dire che l'inflazione di adesso non è un fenomeno unicamente monetario, ma dipende da altri fattori. Tra essi mette i sussidi all'agricoltura e ai biocarburanti.

Di certo l'aumento dei tassi rischierebbe di stangolare la crescita economica in europa sopratutto in paesi come quelli dell'area del mediterraneo, mentre avvantaggerebbe la zona tedesca. Lungo quest'asse politicamente si sta combattendo un accesa partita politica tra Francia e Germania che hanno differenti interessi in politica monetaria, con Sarkosy che arriva quasi a minacciare di andarsene per i fatti suoi e un Trinchet, preso nel mezzo , che fa finta di nulla continuando a ripete che l'inflazione va contenuta e che bisogna stare attenti agli stipendi della gente.

Se alzare i tassi in europa non servisse ci ritroveremmo con una moneta troppo forte per l'Italia e con un inflazione comunque in aumento, un potenziale disastro. Se tutto il resto del mondo venisse dietro al rialzo dei tassi annunciato dalla BCE, come il mercato ritiente faranno gli USA, questo avrebbe certamente un impatto sull'inflazione a costo di un aggravarsi del rallentamento economico globale.

La partita è certamente rischiosa.

Il fallimento dell'inflation targeting, a cui fa riferimento Stiglitz, è ormai cosa acquisita in america, mentre alla BCE erede naturale della Bundesbank ancora sopravvive. E' interessante come esso sia divenuto nel tempo una razionalizzazione per l'esistenza stessa delle banche centrali. Il suo fallimento ha aperto un dibattito sulla necessità stessa di una banca centrale.

Quando una banca alza o abbassa il tasso di interesse finisce col avvantaggiare una categoria di individui a scapito di un altra. Proprio per questa ragione si decise di separare la funzione di una banca centrale strappandola al potere politico, per non creare distorsioni a vantaggio o a svantaggio di qualcuno. I banchieri, si disse, si sarebbero dati un obbiettivo neutro e pubblicamente dichiarato e in base a quello avrebbero regolato la loro politica monetaria.

L'obbiettivo fu individuato nel mantenere il tasso di inflazione entro un determinato valore (il 2% per quel che riguarda la BCE).

Come dice Stiglitz questa di è rivelata "Una ricetta suffragata da scarse elaborazioni di teoria economica e modeste prove empiriche"

Le modeste prove empiriche non hanno mai fermato certi economisti.

L'inflation targeting era anche una delle ragioni per cui le banche centrali non sono intervenute in questi anni per fermare le varie bolle susseguitesi. Finché l'inflazione sui prezzi al consumo è inferiore o uguale al target non importa che cavolo succede sul mercato. Non importa se una montagna di pezzi di carta continua ad aumentare di valore a causa di un espansione chiaramente inflattiva. I computer e gli ipod calavano di prezzo, quindi tutto bene.

Di fatto il mondo e la struttura economica del mondo era cambiata, ma ancora si continuava a descriverlo attraverso strumenti obsoleti, se non completamente campati per aria.

Ultimamente la Federal Reserve ha abbandonato qualunque finzione di imparzialità ed è intervenuta per salvare le banche prossime al fallimento, seguita anche da altre banche centrali (celebre il caso della banca della banca centrale inglese con la northen rock), ed avvantaggiando chiaramente il reparto bancario e finanziario a scapito della collettività su cui è stato scaricato il costo di questi interventi.

Il problema è che queste operazioni possono essere legittimamente fatte, ma sono il risultato di scelte dichiaratamente politiche e pertanto di pertinenza dei relativi parlamenti. Non dovrebbero essere effettuate da burocrati non eletti, come nel caso di Bernanke e dell'operazione di salvataggio della Bear Sterns.

Ciò rappresenta il più evidente e clamoroso fallimento dell'inflation targeting.

Per finire, mentre trovo che i sussidi economici americani ad un idiozia come il bioetanolo ricavato dal mais (energeticamente ed economicamente sconveniente ) siano una cretinata ed un regalo ai grossi conglomerati alimentari degli USA, non riesco a concordare sul fatto che i paesi del primo mondo dovrebbero abbattere ogni barriera e ogni sussidio all'agricoltura.

Se venisse fatto le merci del terzo mondo invaderebbero i nostri mercati rendendo obsoleta e antieconomica la coltivazione locale. Nessun problema direbbe un economista, si chiama vantaggio competitivo. Una cosa viene prodotta dove è più vantaggioso a causa di condizioni locali, come clima o basso costo del lavoro e poi viene venduto dove serve.

Tutto bene, finché tutto va bene.

Se però si verifica una guerra in alcuni dei grossi paesi produttori o a causa di problemi climatici, come negli ultimi anni, i raccolti risultano scarsi non possiamo riacquisire di colpo le competenze agricole perse o abbattere i palazzi costruiti su terreni una volta coltivati.

L'agricoltura è una componente strategica per la sopravvivenza di una nazione e va tenuta in vita a costo di aprire il borsello ed elargire alcuni sussidi.

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